La Lettura, 17 aprile 2022
Bulgakov nell’assedio di Kiev
Nel tardo autunno del 2018, quando già tutte le sterminate pianure ucraine erano coperte fino all’orizzonte da uno strato uniforme di candida neve, che faceva pensare a un lenzuolo ben tirato, ho fatto un lungo viaggio nel Donbass. Accompagnavo un amico regista per i sopralluoghi di un film da girare nell’oblast’ di Donetsk e specialmente a Mariupol.
La prima cosa che viene in mente quando si sente parlare di Ucraina, fin da scuola, è l’agricoltura: grano, mais, girasoli... Ma come il mondo ha imparato fin dai primi giorni di guerra, è il bottino industriale a fare gola. Molte città dell’Ucraina orientale durante l’èra sovietica erano definite «proibite»: ci si poteva andare solo per qualche motivo preciso e forniti dei permessi necessari, perché erano, e sono rimaste, luoghi cruciali per l’estrazione di materie prime come il carbone e il coke e la produzione di energia. Abbiamo visitato miniere grandi come metropoli sotterranee, acciaierie, centrali elettriche, impianti di raffinamento e smaltimento. Forse nessuno, tra le tantissime persone che abbiamo incontrato (ingegneri, operai, addetti alle relazioni esterne...), era in grado di presentire una svolta degli eventi così apocalittica, ma nei discorsi che ascoltavamo si annidava sempre un’ombra scura, una sorta di lucido fatalismo, un’idea collettiva del futuro nel quale l’opzione preferibile non sarebbe stata altro che un male minore. Ogni storia che ascoltavamo sembrava interrotta e sfilacciata dagli eventi, e quasi tutte le voci che le raccontavano erano stremate e disilluse, come capita quando la vita non offre all’orizzonte soluzioni credibili ai problemi che la opprimono e la soffocano. Quella che con una formula consolatoria si definisce guerra «a bassa intensità», non è altro che un lento e implacabile stillicidio di sventure.
Lo stesso paesaggio sembrava risentirne, sotto un cielo basso e sempre gravido di neve. Le strade erano pessime, a parte qualche arteria principale, e in molte zone non era affatto consigliabile andarsene in giro in macchina dopo il calare del sole. Dopo 4 anni di combattimenti tra esercito ucraino e separatisti russi, il numero dei morti e l’entità delle distruzioni era già tale che oggi suona un po’ strano gridare alla «guerra nel cuore dell’Europa» perché la guerra già c’era, quello che semmai non c’era è il grado di ferocia dell’invasore russo.
Avevo scritto un reportage per «la Lettura», pubblicandolo assieme ad alcune fotografie che avevo fatto di palazzi sventrati dai razzi e altre macerie di guerra, praticamente identiche a quelle che vediamo ogni giorno. A ripubblicarle oggi, nessuno potrebbe capire che risalgono a più di tre anni fa. Proprio come accade leggendo per la prima volta o riscoprendo vecchi libri dove il paesaggio ucraino, le guerre che l’hanno periodicamente devastato, gli slogan della propaganda, le distruzioni materiali e morali, la topografia delle città e delle campagne suonano così sinistramente familiari da indurre la terribile certezza che tutto, nella storia umana, si ripeta come nel giro di una macabra giostra. Ricorderò sempre una bellissima conversazione con la responsabile di una minuscola ma accogliente biblioteca di Avdiivka, centro industriale non lontano da Donetsk e Mariupol: uno di quei luoghi in cui le battaglie e i capovolgimenti di fronte avevano lasciato i loro segni molto prima di questo 2022. All’inizio del 2017, mentre infuriava una feroce battaglia, molti libri della biblioteca erano andati perduti a causa di un allagamento causato dall’esplosione di un ordigno. Mi venne in mente di chiedere a quella donna gentile e coraggiosa, che amava la biblioteca che le era stata affidata con un calore per nulla impiegatizio, quale libro avrebbe scelto, nel caso ne avesse potuto salvare solo uno da una distruzione di entità maggiore. Si guardò intorno, esitando, come se la domanda inaspettata fosse una specie di blasfemia dura da digerire. Mi ero già pentito della mia indelicatezza quando, con un sorriso, osservò che, nel caso in cui qualcuno avesse avuto il tempo di salvare un libro... be’, se ne sarebbe potuto portare dietro almeno due, perché non tre? Presi subito nota, e ritrovando la pagina del mio quaderno dove mi ero appuntato i tre titoli, ho provato l’intensa commozione che si prova sempre di fronte al ricordo di un incontro della bellezza e della verità.
I tre libri idealmente portati in salvo erano le Veglie alla fattoria presso Dikan’ka di Nikolaj Gogol’ (1831-1832), La steppa di Anton Cechov (1888) e La guardia bianca di Michail Bulgakov, la cui parte iniziale uscì nel 1924, prima che la censura sovietica impedisse la pubblicazione delle parti conclusive (solo più di sessant’anni dopo si sarebbe potuto conoscere il finale, spuntato dal solito archivio). Dire che si tratta di tre capolavori che «parlano dell’Ucraina» è una verità letterale, ma anche una semplificazione e in qualche modo una svalutazione. La differenza tra un grande scrittore e uno scrittore mediocre consiste proprio nel fatto che, mentre il secondo ci chiede di immaginare esattamente l’argomento di cui parla, il primo ci permette di accedere a un’ulteriore dimensione. Non ci informa, non ci rende moralmente migliori, e non vede nel futuro più di quello che vediamo noi: se cerchiamo in lui questo tipo di benefici, davvero un grande scrittore non serve a nulla. La vera posta in gioco, all’altezza di un Gogol’ o di un Cechov, è semmai l’ampliamento smisurato del senso dell’umano che sperimentiamo leggendoli. La quantità di meraviglia, potremmo dire, che si incunea tra quello che già sappiamo e quello che ignoriamo. E non c’è nessun tipo di sapere che possa sostituire la letteratura, perché siamo noi, non «i lettori» in generale, ma ognuno di noi come singolo individuo, nel momento in cui legge, a generare un’immagine credibile del mondo.
Prendiamo l’Ucraina delle Veglie di Gogol’, così intrise di folklore contadino, di nomi e modi di dire millenari, di oralità. Quello che conta in questi indimenticabili racconti (il più celebre è senza dubbio La notte prima di Natale) non è certo il colore locale. Queste storie sono messaggi che provengono da uno strato più profondo, da un Regno delle Madri che è come l’oscura sorgente vitale di ogni essere umano. Che questa dimensione archetipica e originaria non sia qualcosa di relegato all’infanzia e in lei concluso, ma sia sempre pronta a infiltrarsi per ogni pertugio nella storia e nelle vicissitudini degli «adulti», lo sapeva benissimo anche quel supremo e inimitabile funambolo dello spirito che fu Michail Bulgakov.
La guardia bianca è il grande romanzo corale sulla guerra civile a Kiev, quando, tra il 1918 e il 1920, addirittura tre eserciti la assediarono e conquistarono. Ma è anche uno struggente omaggio alla città in cui lo scrittore era nato nel 1891. Con le sue cupole, i suoi giardini innevati, la grande statua di San Vladimiro che sorveglia l’agitazione degli uomini dalla sua collina, Kiev è la vera protagonista del racconto, in cui i vari personaggi si alternano e vengono in primo piano come altrettante incarnazioni di uno stato di incertezza e smarrimento che rasenta sempre la follia. Tutto Bulgakov è stato in grado di descrivere, dai rumori dei cannoni e delle mitragliatrici al silenzio sospeso delle notti d’assedio, dall’incontrollabile dilagare delle dicerie che diventano leggende ai dialoghi delle sentinelle assiderate. Tra i grandi libri di guerra del Novecento, forse La guardia bianca è uno dei più vicini alle tecniche di rappresentazione del reale tipiche delle avanguardie. È un’Iliadecubista, la sua, nella quale la posta in gioco più preziosa è la capacità dei personaggi di reagire all’incertezza del futuro, anche il più immediato, e al micidiale, imprevedibile gioco delle forze contrapposte.
Sovvertendo l’ordine cronologico, ho lasciato per ultimo quello che molti considerano il più bello dei tributi al paesaggio ucraino mai uscito dalla penna di uno scrittore. La steppa racconta una storia semplicissima: quella di un ragazzino cresciuto in campagna dalla madre vedova, che viene mandato in città a studiare al ginnasio. Storia di un viaggio è il sottotitolo scelto da Cechov per il suo breve romanzo, in cui la terra e il cielo, la notte e il giorno, i fiumi e i campi sembrano accompagnare e istruire il giovane Egòruška non meno dei discorsi degli adulti, come se la fine dell’infanzia di un’insignificante studente di provincia fosse in realtà un evento cosmico, al quale collaborano tutta l’esperienza degli uomini e tutto lo splendore del creato. Come Pinocchio all’ultima pagina delle sue avventure, ecco, anche Egòruška, alla fine del suo viaggio iniziatico, può dirsi nato una seconda volta. Nessuno ancora può dirgli come sarà la sua «seconda vita», e se alla fine sarà valsa davvero la pena di allontanarsi dalla madre e dal villaggio. Alla domanda con cui si conclude la storia, forse nemmeno il tempo è in grado di dare una risposta. Solo la steppa, infinita come il mare, conosce i segreti dei destini, che per ogni viandante sono simboli arcani e incomprensibili come le forme delle nuvole scolpite dal vento.