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 2022  aprile 17 Domenica calendario

Intervista a Sofia Goggia

ofia Goggia – argento olimpico nel 2022, oro nel 2018, prima italiana in libera, seconda nella storia dopo il leggendario Zeno Colò a Oslo 1956 – è una tigre che legge Kavafis. Al cancelletto di partenza sputa nella neve, e al caffè della piazza di Bergamo Alta conversa di psicologia.
Sofia, qual è il suo primo ricordo?
«La baita sopra Cogne, dove salivamo d’estate. Papà aveva comprato dei ruderi per andare a caccia. Un bivacco a 2.241 metri: niente telefono, niente elettricità; candele e acqua di sorgente. Sono gelosa di quella baita: mi dà il senso dell’essenziale. La gente è chiusa, ma se la conquisti diventi di famiglia. Ancora adesso si dicono, in patois: è arrivata Sufei…».
E il primo ricordo pubblico?
«Per la mia generazione è l’11 settembre. Ero sulle mura di Bergamo con mia mamma, stavamo andando a trovare la zia. Incontrammo una signora che aveva il figlio in America, e ci raccontò tutto».
Papà e fratello ingegneri, mamma insegnante. Lei a chi somiglia?
«Io sono Ezio. Sono mio padre. Ingegnere e artista: una figura ossimorica. Adesso ha una mostra di tele a olio ispirate a Hermann Hesse, qui in città alta. Entrambi i genitori sono due martelli orobici: quando si mettono in testa una cosa, la fanno. Ma la sregolatezza l’ho presa da papà».
Com’era da bambina? Giocava con le bambole?
«Le odiavo. Ho la fobia delle bambole. Un vicino che mi era affezionato mi regalò una Barbie; la gettai dal terrazzo. Io volevo giocare a calcio con mio fratello Tommaso. E poi il nuoto, il tennis. Il pianoforte, più strimpellato che suonato. La moto, da enduro. Ma le bambole no. Ancora oggi, quando entro in certe pensioni austriache che ti propinano bambolotti di qua e di là, mi prende il terrore».
Andava d’accordo con suo fratello?
«Ci picchiavamo di continuo. E le ho più date che prese. Da grande tornava dall’università con la ragazza che ora è sua moglie, e non ho mai potuto viverlo come un individuo unico. Ne ho sofferto. Ora abbiamo un bel rapporto».
Quando ha iniziato a sciare?
«A 4 anni. Gli sci avevano le righe, tipo burberry, e sulle punte due orsetti che stringevano un cuore».
È vero che da bambina cadde dalla seggiovia?
«Ero molto piccola. Mi sono seduta in un angolo, gli altri erano più pesanti e sono saliti tutti insieme, così sono scivolata. Però mi sono aggrappata con le mani al poggiapiedi».
L’incubo di ogni sciatore.
«Mi tirarono giù con la scala».
Era veloce fin da subito?
«Ho avuto la fortuna di trovare un maestro, Nicola, che ha visto in me il talento agonistico. Mi sentivo “giusta” se sciavo bene. È come se nella vita avessi sempre cercato qualcosa per sentirmi quel diritto di essere “giusta”, che ogni individuo dovrebbe avere dalla nascita».
Come se vincere fosse un dovere?
«No. Come se fosse l’unica via per avere il diritto di esistere. È un meccanismo patologico, lo so».
Da atleta ha sempre avuto lo psicologo?
«Sì. Il primo ce lo diede la federazione, ora è consulente alla Juventus. Poi ne ho cercato uno a Bergamo. Ora sono approdata a una psichiatra di Brescia. All’Olimpiade in Cina avevo ancora una paura latente per la caduta di Cortina, e abbiamo usato il tapping».
Cos’è il tapping?
«Una tecnica per rivivere l’esperienza e rimuoverla. Incroci le braccia, le dita si appoggiano alla rotula, ti immergi nella sensazione brutta, e scandendo un ritmo dettato dallo psicologo enfatizzi la paura e la sostituisci con l’azione giusta…».
Fa anche yoga?
«Poca. Per un periodo ho fatto molta meditazione. Ma è un palliativo: se ne abusi, va a coprire problemi che prima o poi ritornano».
Prima della partenza ascolta musica?
«Preferisco il silenzio. Metto le cuffie insonorizzanti che mio padre usa al poligono. Ascolto il battito del cuore. Mangio due datteri. Non è superstizione; è un rito che segui per sentirti sicuro. Poi in gara a volte canto».
Canta mentre scia?
«Canticchio. Despacito. Hola di Mengoni. Quest’anno a Lake Louis sono scesa cantando Sapore di Fedez».
Pure all’Olimpiade?
«No, all’Olimpiade silenzio assoluto».
Un infortunio può diventare una forza?
«Nei campioni l’infortunio riflette quasi sempre un conflitto emotivo interiore. Si chiama causazione adeguata. Dipende da qualcosa che hai dentro, su cui devi lavorare. Ci sono atleti martoriati, e altri che non hanno mai nulla».
Crede ai segni del destino?
«Il destino te lo crei tu. Ma non nego che possa esserci un disegno. In Cina avevo segnali bruttissimi: alcuni del mio staff hanno preso il Covid già in Italia, in allenamento nel superG sono caduta alla terza porta… Era come se la vita mi stesse dicendo: “Sofia attenta, stai facendo una mission impossibile, fermati perché finisci male”. Ma avevo una vocazione tale verso la discesa olimpica, verso la medaglia, che è stata più forte di tutto. Ho attinto a una riserva accessibile solo quando sei in condizioni estreme. Ne sono uscita devastata. E lo sono tuttora».
Il 22 gennaio lei vince la libera di Cortina. Il giorno dopo cade in superG. Tutti la ricordiamo mentre va via in lacrime, sorretta a braccia.
«Prendo una cunetta in curva, faccio una spaccata a cento all’ora, il piede sinistro mi gira, una capovolta a terra, ed ecco il patatrac. Sento subito il male da “tirone” al crociato. Ho spaccato uno sci e un attacco. Chiamano il toboga ma non lo voglio, a Cortina non posso scendere se non con le mie gambe. Però non sento più le ginocchia, scio solo con i piedi».
I genitori
A chi somiglio? Io sono Ezio. Sono mio padre. Ingegnere e artista: una figura ossimorica.
La sregolatezza
l’ho presa da papà
La portano in elicottero a Bresso.
«Mi aspettano al bar dell’eliporto, sono duecento metri ma non ce la faccio, mi devono sorreggere. Alla Madonnina il dottor Herbert Schoenhuber mi prende in mano il ginocchio e mi fa, con il suo accento altoatesino: qui c’è qualcosa al crociato. In quei momenti sei apatico, non sai cosa pensare e sperare. Faccio la risonanza: il crociato è saltato per il 50%, mi sono lesionata tutta: collaterale interno ed esterno, crociato anteriore, capsula, testa del perone, inserzione dei muscoli flessori nel punto d’angolo esterno del ginocchio…».
E il dottore?
«Mi dice: Sofi, ce la puoi fare. E non c’è stato un solo giorno in cui ho avuto il dubbio di non farcela. Anche se ne mancavano solo 23 alla discesa in cui dovevo difendere l’oro olimpico. Herbert è così bravo che ha chiamato la mia migliore amica per dirle: state vicini a Sofia. Io inizio subito le terapie».
Quali?
«Sgonfio il ginocchio siringandolo. Comincio con il lavoro nella parte alta del corpo, per dare anche uno stimolo ormonale. Poi tutte le cure per tamponare l’infiammazione. La Redbull mi manda il fisioterapista che segue il capo, Dietrich Mateschitz: così arriva questo austriaco che sembra David Bowie, ma si chiama in realtà Harry Quenz, su un aereo pieno di attrezzature con cui allestisce la camera degli orrori».
Cosa c’era dentro?
«La cyclette per la pedalata eccentrica, al contrario, e le macchine per fare 7-8 terapie diverse. Ogni mattina alle 6 busso alla camera di Harry con un caffè preso al bar di sotto, e andiamo avanti fino alle 7 e mezza di sera, quando arriva il mio massaggiatore dalle mani magiche, Domenico Pesenti. Tra lui, i fisio di Mantova e il mio preparatore Flavio Di Giorgio abbiamo creato un vortice tale da mandarmi in Cina zoppa, ma in grado di provarci».
Quando ha rimesso gli sci?
«In Val d’Ultimo, dopo dodici giorni. Vado in palestra alle 5 e mezza, lavoro fino alle 8, Harry mi prepara la colazione, poi partiamo in elicottero. Provo le porte da gigante, le ultime sono su un dosso e lì freno, ma capisco che posso farcela. La domenica parto per la Cina».
Sensazioni?
«Lo spirito olimpico, il bel clima: tutto falso. L’Olimpiade è una gara di sopravvivenza. Ognuno bada a fare il proprio risultato. E io sono in una condizione diversa dagli altri atleti del villaggio. La sensazione di solitudine è enorme. I mostri nella testa, fortissimi».
Quali mostri?
«L’ansia, l’assenza dello skiman e di chi mi aveva seguito a casa, ritrovarsi nell’ambiente della squadra in circostanze così cambiate…anche se il dottor Panzeri e il fisio Devizzi mi sono sempre vicini. E poi ripenso al nonno. Rileggo il suo trafiletto».
Quale nonno? Quale trafiletto?
«Entrambi i miei nonni hanno fatto la ritirata di Russia. Nonno Angelo, il padre di mio padre, era nei granatieri di Sardegna. Ha portato a casa un rullino di foto, con un trafiletto scritto da lui: c’erano quelli che cadevano nella neve, quelli che impazziti tornavano indietro, e c’era lui, con la gamba semicongelata, che contava le ultime energie, per sopravvivere. Intendiamoci: non oserei mai accostare una gara di sci a quella tragedia. Però la testimonianza del nonno mi ha sempre dato tanta forza».
Prima prova.
«La tensione tra i tecnici è pazzesca. Nel test di superG sono caduta. Poi entro nella casetta della partenza della libera, vedo i cinque cerchi e mi dico: il mio posto è qui. L’avevo scritto a nove anni: da grande voglio vincere la medaglia d’oro olimpica nella discesa libera».
Però in quella prova arriva sedicesima.
«Parto prudente. Nell’imbuto del Dragone sono caduti due o tre maschi, ho un po’ di patema. La seconda prova la cancellano, nella terza faccio il settimo tempo».
Cos’ha pensato in gara?
«A nulla. Quando all’arrivo vedo che sono prima caccio quell’urlo formidabile, quel grido di liberazione in cui c’è tutta la mia essenza, tutto il sangue che ho sputato in quei 23 giorni, tutto il dolore che prima non potevo permettermi di sentire… ma poi mi dico subito che quattro decimi di vantaggio sulla Nadia Delago sono pochi».
La svizzera Suter la batte. Argento. Comunque un’impresa storica. Come ha reagito quando Maria Rosa Quario, campionessa della «valanga rosa» e madre della grande Federica Brignone, ha espresso dubbi sulla gravità del suo incidente di Cortina?
«Ci sono rimasta malissimo. E ho chiesto alla clinica di mandarmi il referto, così da farlo vedere. Com’è possibile, mi sono chiesta, che accada questo? Che vengano messi in discussione i medici, i verdetti di strumentazioni all’avanguardia? E questo solo perché l’impresa che ho fatto va oltre gli standard a cui siamo abituati».
Come sono davvero i suoi rapporti con Federica?
«Cercherò di andare avanti in un rapporto di civiltà, condividendo quello che c’è da condividere, cercando di imparare da lei a livello sciistico. Da sempre dico che Federica mi ha spronato a dare il meglio di me. Prendo il buono dalla situazione».
Lei come si giudica?
«Non mi basto mai. Penso che potrei essere sempre migliore. È una costruzione incessante. Ma è anche una condanna».
Lei è la prima, dai tempi di Tomba e Compagnoni, a diventare un personaggio, ad andare oltre lo sci. Come lo spiega?
«È il carisma che puoi avere a renderti personaggio. C’è chi vince, anche molto, ma è piatto. Io sono quella che sono anche grazie alle sconfitte e agli infortuni. Ho perso i Mondiali di Cortina 2021 per una caduta sulla pista di rientro a Garmisch: frattura del piatto tibiale. Anche per questo voglio arrivare all’Olimpiade Milano-Cortina».
Quando ha avuto il primo grave incidente?
«A 14 anni mi si è girato il ginocchio, in gigante, e mi sono fatta il crociato destro».
Poi ci fu la caduta di Altenmarkt, quando batté la testa. Sua madre ha raccontato che per due mesi lei non rispose agli sms.
«Era un po’ una scusa… Da giovane ero ribelle. A settembre andavo in Argentina ad allenarmi, ci vado ancora, e da Ushuaia non sentivo i miei, cercavo l’indipendenza anche con la lontananza. Comunque ad Altenmarkt la botta la presi: finii nelle reti, e le reti si stamparono sul casco, che si tinse del viola della mucca Milka, lo sponsor dell’epoca».
Lei si rivelò ai Mondiali 2013, a Schladming.
«Non avevo ancora finito una gara in Coppa del mondo, e mi dicono: vai ai Mondiali. E io: va bene, è una corsa come le altre. Quell’approccio spregiudicato mi aiutò. Arrivai quarta, mentre Lindsey Vonn si spaccava. Un altro segno del destino, forse».
Con la Vonn siete amiche, vero?
«Ci scriviamo. È una grande donna. La rivedo mentre dà i consigli alle compagne, sulla linea da tenere, i rischi da evitare. Questo significa essere una campionessa, lasciare un’eredità. Stimo moltissimo anche Deborah Compagnoni. E Isolde Kostner».
La mentalità
Non mi basto mai,
penso che potrei
essere sempre migliore.
È una costruzione incessante,
ma anche una condanna
Anche all’Olimpiade era così serena?
«La prima, Pyeongchang 2018, è stata un gioco: le neve non sa che ci giochiamo l’oro; vado giù, faccio del mio meglio e poi vediamo. Così ho vinto. Anche stavolta in Cina ero senza pressione: cosa puoi aspettarti dalla numero 1 al mondo che cade tre settimane prima della gara e si azzoppa? Potevo arrivare prima o sedicesima: tutta la costellazione delle possibilità sarebbe stata giustificata. Quindi non avevo pressione. L’ho sentita di più a fine stagione, quando dovevo vincere la Coppa del mondo di discesa, e non ne avevo più».
Però l’ha vinta.
«Ero un animale ferito, ma non potevo guardare la ferita; dovevo ragionare come se fossi stata sana».
Dietro l’oro olimpico c’è la storia del tappo.
«Alle preolimpiche in Corea, insieme con l’ambasciatore italiano, arriva una scienziata. Brindiamo a lambrusco e lei mi dice: tieni il tappo, me lo ridai l’anno prossimo, quando vincerai i Giochi. A casa mia mamma per poco non me lo butta via. Lo porto in Corea, ma per il superG lo dimentico, e perdo: sono in testa, mi lascio prendere dal piacere di sciare, commetto un errore. Per la libera infilo il tappo nella tasca destra della giacca. E all’arrivo trovo lei, la scienziata, che me lo chiede».
E dopo?
«Sono salita sulla montagna, mi sono arrampicata su un albero, ho scritto le mie emozioni sul diario, e ho pianto».
Anche prima dell’Olimpiade 2018 lei aveva vinto a Cortina, ed era caduta il giorno dopo.
«Mi sono ribaltata per 44 metri; e non mi sono fatta nulla. Ogni tanto il Signore santo guarda giù. Come quando ho avuto l’incidente in macchina: cado nel precipizio, mi capovolgo, mi fermo; ma non vedo la strada, vedo il tetto delle case…Sono atterrata su un furgone. Non trovo più la mia medaglietta del santuario di Oropa. Ma sono incolume».
Lei crede?
«Vado in chiesa, in Duomo, da don Fabio. Mi piace pensare che ci sia qualcosa».
Come immagina l’Aldilà?
«Devo aspettarmi l’Inferno dantesco o la beatitudine del Paradiso? Non lo so. Ho letto “La biologia delle credenze” di Bruce Lipton: parla della traccia che ogni individuo lascia, come se l’universo sentisse il passaggio di ciascuno di noi».
Lei studia all’università.
«Scienze politiche alla Luiss. Ora devo dare l’esame con il professor Orsini».
Non trova bizzarre le sue idee sulla Russia?
«Al contrario: le trovo stimolanti. Dobbiamo sempre preferire la discussione alla propaganda».
Come mai è ancora single?
«Ho avuto un unico grande amore. Una relazione complicata, finita malissimo. Sono caduta in una di quelle situazioni che mai avrei pensato di vivere. Ho sofferto tanto, mi ha devastata. Ora non ci penso, finché gareggio. Poi magari mi innamoro domani mattina…».
Sarà corteggiatissima.
«Ho sempre cercato uomini più maturi di me».
Vorrebbe figli?
«Sì. Ma magari non diventerò mamma, devo trovare il principe azzurro…».
In che periodo va in vacanza?
«Questo. Zaino in spalla con Avventure nel mondo. Bolivia, Seychelles, Cile, Mauritius, Ruta Maya in Messico…Ora sono indecisa tra Oman e Cuba».
Come ha passato il lockdown, così pesante qui a Bergamo?
«Ad allevare galline. Fu un periodo terribile, le ambulanze che suonavano ogni cinque minuti… Così sono diventata socia di questo allevamento a Lonno, una frazione di Nembro: 2.500 galline che vivono felici tra gli alberi. Le uova le consegnano ragazzi che erano in difficoltà e hanno trovato un posto accogliente. Il silenzio del periodo ha dato voce a una piccola attività».
Si considera femminista?
«Credo che le donne debbano lottare per i loro diritti, compresa la parità di retribuzione. Ma le donne sono donne; gli uomini, uomini. Non mi piace quando dicono: donna con le palle. Perché devi giudicarmi da quello che non ho, che non sono?».
Ci sono omosessuali tra gli atleti?
«Tra le donne qualcuna sì. Tra gli uomini direi di no. Devono gettarsi giù dalla Streif di Kitz…».
È giusto che i transgender gareggino con le donne?
«A livello di sport, un uomo che si trasforma in donna ha caratteristiche fisiche, anche a livello ormonale, che consentono di spingere di più. Non credo allora che sia giusto».
Cosa distingue un atleta da un campione?
«Il fuoco sacro, qualcosa di inestinguibile che ti brucia dentro. E la capacità di convertire la pressione in spinta propulsiva. Ci sono i leoni da allenamento. E ci sono quelli che vincono».
È vero che ha un sogno ricorrente?
«Non è un sogno, è una visione. Arrivo in una stanza buia con la tuta dell’Olimpiade, vedo una bambina, le faccio una carezza, e quella bambina sono io. Non so se sarebbe felice della Sofia di oggi».
Perché non dovrebbe esserlo?
«Ve l’ho detto: non mi sento mai “abbastanza”. Si può sempre essere migliori».
Qual è la sua poesia preferita di Kavafis?
«Itaca. L’avevo letta in un periodo in cui ero un po’ intrippata… Con il tempo l’ho capita. Vuol dire che la cosa importante nella vita non è la meta; è il viaggio».