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 1962  aprile 21 Sabato calendario

Biografia di Attilio Piccioni

I candidati al Quirinale
PICCIONI
Di Indro Montanelli
Corriere della Sera, sabato 21 aprile 1962
Tutti i pretendenti al  Quirinale giurano e spergiurano che non ci pretendono affatto.  L’unico che non ha bisogno di farlo, perché la gente gli creda, è  Attilio Piccioni. Se non la sua modestia, certo la sua pigrizia gode di un credito illimitato. E i fatti, da quel che se ne sa, lo confermano. Mi hanno detto che, per dissuaderlo da un  preventivo e solenne rifiuto di  candidatura, i suoi amici di  partito incaricati di «sondarlo» avrebbero svolto questo  argomento: che in un caso come quello attuale il tirarsi indietro costerebbe più fatica e  procurerebbe più «grane» che il  farsi avanti. Piccioni si è stretto nelle spalle con aria rassegnata e. pur senza farsi avanti, ha  rinunziato a tirarsi indietro.  Lascerà fare; e se tocca a lui,  accetterà. Tuttavia la sua  neutralità e buona fede sono  talmente lampanti che Moro gli ha affidato il delicato compito di cercare un punto d’incontro fra le varie e contrastanti tendenze del partito in modo ch’esso si presenti unito su un nome, e non in ordine sparso come  l’altra volta.
Queste sono le incombenze che più convengono a Piccioni e che più volentieri, o meno  malvolentieri, egli assolve. Non ci sono né impegni d’ufficio, né scadenze d’orario, né lettere da scrivere, né discorsi da  preparare. Ci sono soltanto delle  passeggiate da fare sottobraccio con tizio_ o con caio per tastarne le opinioni, per scambiare delle idee. Piccioni ha l’inestimabile vantaggio di disarmare le  diffidenze perché con lui non c’è da temere ch’egli parli e manovri prò domo sua. Notoriamente non fa parte né di correnti né di consorterie. Perfino  nell’interno di quel partito concimato soltanto di rivalità c di sospetti, a lui si riconosce una  imparzialità solidamente ancorata su una totale mancanza, anzi su una  assoluta incapacità di ambizioni, di passioni e di rancori.
Ma è proprio per questo che sulla sua testa incombe, come una spada di Damocle,  l’elezione al Quirinale. Piccioni è  l’unico candidato che potrebb’essere votato all’unanimità il giorno in cui gli’altri si bloccassero a  vicenda come è probabile che  avvenga. Non si tratta nemmeno di «nominarlo», ma solo di  «riconoscerlo» presidente perché lo è di già. Lo è del partito, lo è in tutti i congressi; lo  diventa perfino, automaticamente, a tavola se qualche volta si va a cena con lui. Credo che il giorno (speriamo fra cent’anni) in cui defungerà, Piccioni non sarà il protagonista, ma il  presidente delle proprie esequie.
Eppure, non era così. Anzi. La gioventù di quest’uomo è stata dura, faticata e tribolata. Per superare il muro di miseria che gli sbarrava la via degli studi, Attilio dovette ricorrere a vere acrobazie. È una storia eroica, la sua, fatta di digiuni e di  borse di studio vinte a furia di  veglie a lume di candela.  Lavorava di giorno per guadagnarsi il pane, sgobbava di notte per conquistare una laurea, ma la fame, il freddo e la  disperazione li ha conosciuti di persona. Non tutti sanno che è stato un interventista nel ’15, un  volontario di guerra e un  coraggiosissimo e brillante ufficiale:  sono cose, lo capisco, che  somigliano poco al Piccioni  bighellone di oggi e che nessuno  ricordò quando sulla sua persona si abbatterono le ondate del più vergognoso, ignobile e infame scandalo che la stampa e la pubblica opinione abbiano mai scatenato contro un innocente.
Quell’episodio ci restituì un altro Piccioni, la cui parabola non è difficile da ricostruire. Credo che ancora oggi egli  stesso ignori, come tutti ignoriamo, come e da chi venne promosso quel tentativo di linciaggio  morale. Se ne sono fornite varie versioni, ma nessuna è stata provata. Ciò che non ha  bisogno di prove perché era  lampante nei fatti fu la sadica  voluttà di sporcizia e di  distruzione con cui il modesto affare Montesi venne gonfiato fino a conferirgli le proporzioni di un grande fatto di costume  nazionale.
Piccioni si trovò solo a  difendere suo figlio. Uno ad uno anche gli amici più fedeli come Scelba, che non aveva mai  dubitato dell’innocenza di Piero, dovettero abbandonarlo sotto i clamorosi assalti della  indignazione popolare. Piccioni, tutti lo sanno, è un uomo di famiglia che, essendo rimasto vedovo  assai presto, ai suoi ragazzi ha fatto, oltre che da padre, anche da madre. Così duramente  colpito proprio in questi affetti, cominciò a persuadersi non di essere la vittima di suo figlio, ma che suo figlio era la vittima sua. Nessuno, egli pensava, avrebbe fatto il nome di Piero, se Piero non fosse stato il  figlio di Attilio, il più intimo e fedele collaboratore di De  Gasperi, il N. 2 del partito  italiano N. 1. Egli non rimproverò mai a suo figlio di aver fornito con le sue leggerezze pretesto ad accuse che in realtà miravano a distruggere il padre.  Rimproverava a se stesso di aver  suscitato rivalità ed invidie di cui ora il ragazzo faceva le spese. La colpa di Piero non era di aver ucciso la Montesi, ma di  chiamarsi Piccioni; e il  responsabile ne era lui, Attilio, per via delle sue ambizioni.
Queste non sono induzioni mie. Sono cose che so, e che spiegano abbastanza, mi sembra, la cosiddetta pigrizia di Piccioni, che in realtà è ben altro.  Intellettualmente, l’uomo è rimasto quello di prima e di sempre:  intelligentissimo, di grande cultura umanistica, di conversazione  incantevole, ricca di citazioni e di aneddoti, di giudizio sempre equanime e oggettivo. Ma non ha più la molla che fa scattare la volontà e le conferisce un mordente. Piccioni aveva già, fin dai tempi di De Gasperi, quando sembrava anzi che dovesse  esserne il delfino, una certa tendenza a posizioni distaccate, più di conciliatore e di arbitro che di protagonista. Ma, sebbene anche allora fosse immune da  frenesie attivistiche, ci s’impegnava. Non prendeva atteggiamenti  polemici, ma prendeva  atteggiamenti. I suoi interventi erano pacati, ma decisi. Non è mai stato un capo-corrente, ma è sempre stato un capo.
Lo è ancora, ma in un altro senso non facile da afferrare c da spiegare. Se ho ben capito, nella democrazia cristiana ci  sono, nei confronti di Piccioni, due complessi: uno filiale, l’altro di colpa. II primo non deriva  dall’età perché ci sono altri «  notabili» vecchi quanto lui o più di lui. Ma Piccioni è il solo che non sia impegnato e che  fornisca assolute garanzie  d’imparzialità. Per questo lo hanno  fatto presidente. Per questo è  sempre lui che dirige i congressi. Per questo infine, una volta che Gronchi dal Quirinale mise in imbarazzo il partito, fu  affidato a Piccioni il delicato compito di parlargli e di richiamarlo  alla ragione. E Piccioni  lo assolse con una formula abbastanza concisa: quella che gli  consentiva appunto la sua implicita qualità di padre, di padre di tutti, anche del capo dello Stato. Il complesso di colpa viene dal fatto che in lui si riconosce la vittima di un successo  democristiano troppo grande e  duraturo, l’amico abbandonato e  tradito nel momento del pericolo. Piccioni non ha mai rinfacciato a nessuno questa diserzione. Ma di qui appunto deriva la sua  alta autorità morale. È l’uomo che si è lasciato distruggere  affrontando da solo la tempesta senza chiedere aiuto, senza  recriminare perché nessuno gliene dava, e senza serbare rancori. Non ha chiesto nemmeno la compassione.
Dicono che di ambizioni una glien’è rimasta: la presidenza del Senato, che tuttavia non ha mai brigato un po’ perché di brighe non è capace, un po’ per la  vecchia amicizia che lo lega a  Merzagora. Ma sicuramente il  Senato gli piace perché vi trascorre la sua giornata, e anche per  passeggiare sceglie le strade e  stradùcole che lo contornano,  entrando dalla porta di dietro, uscendo da quella davanti e  ricominciando daccapo finché non ha fatto un certo numero di  chilometri. Quelle sale nobili e  severe, quei lunghi corridoi  felpati, quei tendaggi pesanti, quelle moquettes rosse, quella  biblioteca silente c bene ordinata, gli vanno a genio. Là egli incontra gli amici (di nemici non ne ha), li prende sottobraccio, discorre pacatamente con loro, non  sempre di politica. È il suo club.
E invece forse gli toccherà andare al Quirinale, di cui non gli piace nulla: né il palazzo né, tanto meno, le complicate e spossanti liturgie. Piccioni ha il terrore delle cerimonie, dei ricevimenti, dei pranzi. Non ama niente di tutto ciò che, agli  occhi degli altri, costituisce il  fascino della suprema  magistratura: gli onori, gl’inchini, il «  protocollo». Ma ecco dove rischia di condurlo la sua astinenza  dalla politica, la sua rinunzia alle parti di protagonista. Perché, se lo eleggeranno, lo eleggeranno proprio soprattutto per la sua svogliatezza. Un  presidente come lui non c’è rischio che forzi le strettoie della  Costituzione per attribuirsi dei poteri ch’essa non gli concede. Anzi, caso mai, il rischio è ch’egli non eserciti nemmeno i pochi che gli competono. Ma, dopo i pericoli corsi col presidente uscènte, questa è una buona referenza.
ì Tuttavia per il momento egli seguita a lavorare per un altro. Chi sia non lo so, ma forse non lo sa nemmeno lui. Il suo  compito non è tanto di avallare una candidatura, ma di tare in  modo che il partito ne abbia una e voti compatto per quella.  Ignoro che risultati abbia ottenuto. A quel che si dice, pochi o punti, gli «amici» democristiani  essendo sempre meno amici tra loro e pronti alle più flagranti contraddizioni pur di  paralizzarsi a vicenda. Ma nessuno probabilmente né è tanto costernato quanto  Piccioni, che appunto da questa paralisi rischia di essere  trascinato dove non ha punta voglia di andare.
Indro Montanelli
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