La Lettura, 17 aprile 2022
Su "Il Mago di Riga" di Giorgio Fontana (il Mulino)
A cinquantacinque anni sembrava un ottantenne, scheletrico, annegato in una giacca troppo grande, con «lanosi ciuffi di capelli grigi ai lati della calvizie». Qualcuno diceva che il mago di Riga venisse dal demonio, ma per Boris Spasskij che gli fu avversario e amico era il messia degli scacchi. A Michail Tal’, detto Miša, campione sovietico nel 1957 a 21 anni, e poi il più giovane campione del mondo della storia prima di Garry Kasparov, Giorgio Fontana dedica Il Mago di Riga, un nuovo romanzo, in uscita da Sellerio, che non è una biografia benché molti fatti raccontati siano accaduti nella realtà.
Figlio di un medico, «cresciuto in un salotto con pianoforte a muro, mobili d’ebano e teiere decorate da boccioli viola pallido», Miša come scacchista sceglie il rischio e il disordine: «All’assalto, sempre». Fontana lo immagina e lo racconta mentre è impegnato in una partita con Vladimir Akopian, giovane armeno-americano educato ma belligerante, che desiderava affrontare ad armi pari la vecchia leggenda e rifiutava la patta. È il 5 maggio 1992 a Barcellona (Tal’ morirà il 28 giugno): dell’ultima partita giocata dal campione lettone con un tempo standard di torneo Fontana riporta con esattezza lo svolgimento, sulla traccia del resoconto fornito dallo stesso Akopian.
Tal’ non è semplicemente l’epitome del genio e sregolatezza, è qualcosa di più: rivoluziona il gioco in un Paese in cui «il potere aveva imposto ovunque gli scacchi per la loro natura dialettica, per plasmare carattere e forza di volontà nel popolo sovietico, per esibire superiorità davanti all’Occidente», senza comprendere che niente può togliere al gioco il suo vero fine, «giocare, e pertanto sovvertire l’ordine delle cose».
Nella grande epica di Prima di noi, romanzo-fiume ambizioso e riuscito che copre quasi un secolo di storia italiana, dal Friuli rurale alla Milano contemporanea, Fontana si ricollegava idealmente ai precedenti Per legge superiore e Morte di un uomo felice. Qui rilancia con un romanzo breve, anche questo novecentesco, che coincide con un unico personaggio, capace di assorbire in sé i riverberi politici e sociali dell’epoca. Se in Prima di noi la lingua era modellata intorno al tempo e al luogo, con inserzioni dialettali e gergali, qui perdura un tono lirico e partecipe, mai troppo facile.
Aderendo al personaggio con un lavoro di documentazione che prevede anche la raccolta di notizie di prima mano (per esempio condivise dallo stesso Vladimir Akopian), Fontana costruisce un’epica romantica che contiene tutto: il momento storico — l’Urss prima e immediatamente dopo la sua dissoluzione — le strutture sociali, le peculiarità di quel microcosmo scacchistico che per alcuni è coinciso con la vita. Miša a suo modo era un ribelle ma amava il suo Paese «con dolente intensità» e dopo tre giorni all’estero l’idea di ritornare a Riga lo riempiva d’entusiasmo anche negli anni più difficili. Immune dall’invidia, dotato di una memoria implacabile, fiaccato dalle malattie che avevano cominciato a manifestarsi fin dai vent’anni e dal bisogno dell’alcol, Tal’ «calcolava con rapidità e precisione straordinarie, ma il suo vero talento era un altro, di ordine puramente intuitivo: con uno sguardo rinveniva il capo del groviglio di pezzi, vedeva la posizione futura come i lineamenti di una scultura non ancora liberata dal blocco di marmo».
Miša non è un ascetico ministro della scacchiera, sa godersi qualsiasi piacere terreno, ascoltare Chopin o Rachmaninov, legger Maupassant, andare allo stadio, frequentare ragazze, «ma in realtà apparteneva soltanto al gioco». Non occorre essere scacchisti o appassionati per seguire le mosse di Fontana mentre mostra il suo giocatore aprirsi la strada verso il re avversario «sacrificando pezzo dopo pezzo, complicando ogni posizione fino allo spasimo, quasi volesse dilaniarla». La storia degli scacchi d’altronde, è «una grotta di volti sopravvissuti alle disgrazie, alla solitudine, al buon senso e alle necessità del quotidiano» nella quale trovano posto la concentrazione furiosa e quasi assassina di Fischer; gli aristocratici lineamenti di Keres; l’accigliato Botvinnik, detto il Patriarca, da cui proveniva l’intera scuola sovietica, plasmata sulla sua lezione di cura nella preparazione del gioco e austerità del metodo.
La partita a scacchi è un corpo a corpo: tutto quel tempo passato davanti a un altro uomo seduto, immersi nel silenzio e uniti in una relazione che, scrive Fontana, può assomigliare all’amore, al sesso, a una lotta a mani nude nel fango: «Lui aveva fissato Botvinnik che aveva fissato Alechin e Capablanca, che avevano fissato Lasker che aveva fissato Tarrasch e Steinitz, e quest’ultimo Zukertort e Anderssen, il quale a sua volta aveva scrutato a lungo il viso mobile e aggraziato di Paul Morphy, il genio americano».
Amante delle partite gustose, da assaporare come se fossero una ghiottoneria o un piacere proibito, evocatore di tutte le forze oscure che ogni mossa contiene in sé, accumulatore di complessità in attesa che un fulmine fenda le nubi della scacchiera, Tal’ è incapace di resistere al capriccio, anche quando la malattia lo porta davanti al suo avversario sudato e febbricitante, distrutto dal mal di schiena e dalle fitte ai reni, mentre la mano con solo tre dita (era affetto da un difetto congenito, la ectrodattilia, che faceva assomigliare l’arto a una grossa chela) frulla nell’aria. Il sacrificio, tecnica di cui il lettone è maestro, che negli scacchi significa cedere un pezzo importante con la prospettiva di vincere nel lungo termine, è la metafora della sua vita: pagare, subito e caro, con la sofferenza fisica, «tutta la vita che furiosamente bramava e che aveva divorato».