Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 17 Domenica calendario

Biografia di Tommaso Ragno raccontata da lui stesso

Bar nel centro di Roma. Sole primaverile. Turisti pochi. Ragazzi tanti. Spritz a pioggia.
Seduto c’è un signore: capelli bianchi lunghi, un po’ alla Nathan Never, giacca e maglietta rock, All Star ai piedi, occhiali da sole anni 80 e un anello d’argento alla mano sinistra. Sull’anello una scritta chiara, più pratica che poetica: “Sti cazzi”. “È una delle prime frasi che ho imparato a Roma. Mi piace”.
È Tommaso Ragno, quasi 55 anni, uno dei più bravi attori teatrali italiani, da mesi in tournée insieme a Massimo Popolizio con M. – Il figlio del secolo, tratto dall’omonimo romanzo (premio Strega) di Antonio Scurati. Negli ultimi anni anche cinema e televisione hanno colto i colori di un interprete non comune; così sono arrivati i ruoli importanti, diversi, spesso drammatici e talmente differenti l’uno dall’altro da renderlo irriconoscibile.
Lui è irriconoscibile.
Grasso. Magro. Anziano. Giovane. Remissivo. Violento. Seducente.
Ma non cambia l’impostazione di chi è abituato a stare al servizio del proprio lavoro e non col lavoro al servizio del proprio ego, ed è abituato a porre e porsi interrogativi, piuttosto che riceverne. “Evitiamo domande personali?”.
Come mai? 
Non è interessante. Anzi, non è interessante per niente.
È un attore cangiante.
Se si riferisce alle metamorfosi, allora sì: la mia ambizione è non esserci.
Ci riesce.
Nel momento in cui si hanno il privilegio e la fortuna di stare su un palcoscenico o su un set, più che la ricerca della luce, preferisco la strada del buio. (Pausa) Un attore deve scomparire: l’ho imparato grazie ai grandissimi teatranti incontrati sin da giovane, mentre il cinema è arrivato dopo.
Quanto dopo? 
In maniera più seria e costante? Negli ultimi cinque o sei anni.
Popolizio derubrica il set a “bancomat”.
Non lo vivo così; (sorride) Klaus Kinski consigliava: “Non perdere tempo a leggere la sceneggiatura, chiedi il doppio e poi accetta”.
Quindi…
Tra gli alti e bassi che si possono incontrare, e magari sono maggiori i bassi, se uno insiste vuol dire che non può farne a meno.
I suoi bassi…
Di occasioni per lamentarsi ne troviamo anche dove non ce ne sono; se questo mestiere mi ha permesso di vivere, e non è poco, ho imparato quanto conta la durata.
Tradotto? 
Non esistiamo solo noi, prima c’è stato qualcuno, così come ci sarà un dopo, altrimenti cadiamo nel paradosso di chi non vuole leggere Dostoevskij.
Le piace il cinema? 
Molto.
Le dispiaceva non venire coinvolto? 
No, ero soddisfatto del teatro con Cecchi, Ronconi, Castri, Servillo o Martone… Sono un piccolo borghese che ha avuto la fortuna di incontrare persone che sono diventate “case teatrali”.
Di cosa si occupavano i suoi genitori? 
Non conta, mi sono definito “piccolo borghese”, ma avrei potuto dire “persona qualunque” o un “x”; quello che mi differenzia è l’immaginazione sulla scena rispetto alla mia vita normale, quello che ho potuto vivere stando sul palco. Io ho visto, io ho avuto la fortuna…
Ancora la “fortuna”…
Sì, ma finito il periodo di prova uno deve dimostrare di sapersi guadagnare quella fiducia.
Quando ha compiuto il salto di qualità.
Cosa intende?
La sua cifra artistica.
Il meglio per un attore arriva dopo i 35-40 anni.
In che termini? 
Fisiologici; a quell’età non si è più supportati da forze ormonali naturali e primarie, e allora arriva il vero lavoro, quando non sei né giovane né vecchio, e come sosteneva Shakespeare, “sei in quella lunga sonnolenza del dopopranzo in cui le sogni entrambe”; quello che definisce il “salto di qualità” è arrivato dopo anni di duro impegno; (pausa) a un certo punto ho sentito che avevo raggiunto il mio corpo e la mia voce, però non in termini eterni, una volta per tutte.
Ha mai pensato di mollare? 
Per un periodo l’ho fatto.
Di cosa si è occupato? 
Di altro.
Troppo personale? 
Per dieci anni ho dedicato maggiore tempo alla vita privata e ho vissuto a Berlino. Lì ho ancora parte della famiglia.
Perché Berlino? 
Ero impegnato in una tournée mondiale con Servillo e Berlino è stata la prima tappa: lì ho provato la sensazione di stare a casa, nonostante fosse la prima volta; lì i tedeschi vivono il teatro o i musei come parte integrante della vita, una necessità, non un’occasione mondana.
Parla tedesco? 
Sì.
Non è una lingua semplice.
Per vivere o sopravvivere si impara qualsiasi cosa.
Come ha ricominciato col teatro? 
Piano piano, ma ho sempre accettato qualunque progetto, perché prima di tutto questo è un lavoro e non avevo abbastanza tempo né denaro per avere gusto; però ho cercato di affrontare ogni ruolo con lo stesso grado di serietà.
Sempre…
La tua mano c’è anche quando sei impegnato in una stronzata, altrimenti perché farla?
Niente puzza sotto il naso.
La conosco benissimo, ma vengo guidato dal principio di realtà, poi arriva il principio di piacere. Il massimo è quando i due vanno insieme.
Adesso può.
Non ne sarei così sicuro.
Si nasconde? 
No, è che nessuno ti reclama in scena; non si sente questo bisogno pazzesco di teatro, non siamo i Beatles o i Rolling Stones negli anni Sessanta.
Si è mai occupato di regia? 
No, non ho niente da dire. O meglio: magari non mi è capitato ancora il testo giusto.
Sarebbe in grado? 
Non ci ho mai pensato.
Sembra strano.
Eppure è vero; Massimo (Popolizio) oltre a essere un grande attore sa dirigere; (pausa) l’attore è regista di se stesso.
Segue sempre le indicazioni del regista? 
Ho bisogno della regola per poterla trascendere, ma solo quando possiedo bene quella regola e se il regista è bravo.
Qual è il regista bravo? 
Quello che conosce i problemi della recitazione; (sorride) Orson Welles raccontava di aver incontrato registi con trent’anni di esperienza che non avevano mai diretto un attore. Hitchcock, quando gli hanno domandato “pensa mai di diventare attore?”, ha risposto: “Non mi abbasserei mai a quel livello”.
Come andava a scuola? 
Bene.
Rimandato? 
Sempre.
Hobby? 
Amavo disegnare e dipingere; sono stato fortunato: sono cresciuto in un’epoca in cui era difficile distrarsi, al massimo ci si poteva annoiare.
Ha mai rifiutato un ruolo per non essere quel personaggio? 
Sì, avevo capito di non poter dare il mio giusto contributo; altre volte ho accettato solo per la necessità di campare.
Quanto tempo è durata la necessità? 
È costante, da un momento all’altro questa esposizione può scomparire.
Le piace l’esposizione? 
Solo se è legata al mio lavoro, attraverso una competenza.
Ora potrebbe finire su un giornale di gossip.
E perché?
È un personaggio.
No, sono un attore.
Un attore personaggio.
Si parla di temperatura percepita, non di quella reale.
Se trovasse un fotografo sotto casa? 
Non mi piacerebbe. E poi non sono interessante in quanto Tommaso.
Magari lo è anche come Tommaso.
Questo è uno degli aspetti che il mio lavoro offre, e magari può risultare piacevole, ma non considero importanti le situazioni slegate dalla professione. È più interessante capire cosa passa attraverso il mio lavoro.
Anche come è arrivato a quel palco…
La risposta sta in tutti i giorni, tutti gli anni.
Qual è la sua ossessione? 
Lo spettacolo, non vedo l’ora di andare in teatro. Voglio che ne sia valsa la pena vedermi: recitare è non solo un fatto estetico, ma etico.
Se quando torna a casa non è soddisfatto? 
Mi dispiace. Molto. Però poi lo dimentico: è nel conto.
Per Gigi Proietti mai dare del “tu” al palco…
È vero. Bravissimo. Non sarei in grado di trovare una sintesi così netta.
Ruoli comici li ha mai affrontati? 
A volte.
Ha i tempi? 
Se è scritto bene, sì; (ci pensa) la tecnica si impara di più negli spettacoli comici che in quelli drammatici.
Sostiene Claudio Amendola: “Ragno è la prova che esistono grandissimi attori, ma spesso non lo sappiamo”.
Lo ha detto Amendola?
Sì.
Che cosa posso rispondere? (Resta zitto a lungo). Già arrivare a un livello medio non sarebbe male; ho potuto vedere tantissimi spettacoli straordinari e non esiste il solo attore, ma il contesto che lo racchiude.
Lei come si giudica? 
Preferisco non saperlo, voglio restare un passo dietro e non è una forma di apparente modestia.
È modesto? 
(Altro silenzio) Se vado a mangiare qualcosa al ristorante non devo sapere per forza cosa ha combinato il cuoco per mettere insieme la cena; allo stesso modo, il pubblico non deve sapere cosa ho combinato per quelle tre ore di spettacolo.
Se per un salto di carriera servisse esporsi maggiormente, accetterebbe? 
Mi ci dovrei trovare.
Un cinepanettone lo girerebbe? 
Perché no.
Un reality? 
No.
Per un milione di euro? 
Quel gioco è a eliminare qualcun altro, a insultarsi. Dovrei essere proprio alla frutta perché lì ci vuol poco a tirar fuori il peggio di sé senza preliminari.
I preliminari sono…
Importantissimi; (sorride) il sipario chiuso è un preliminare meraviglioso, un’attesa magica.
Chi è lei? 
Un attore. E non potrei fare altro.
(In due ore ha bevuto solo caffè. Alla fine cede a uno snack dietetico. “Per un ruolo ho preso quaranta chili. Ora va meglio”. Anche questo fa un attore irriconoscibile).