il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2022
A proposito di Alessandro Borghese e i ragazzi fannulloni
Rieccoci. “I giovani non vogliono lavorare”, si parte sempre da qui. In genere succede sui giornali di proprietà dei grandi gruppi industriali: esce l’intervista di un personaggio mediatico, uno chef stellato, un proprietario di ristoranti, bar, panetterie, un rappresentante di categoria della ristorazione o del turismo. Si svela una realtà in bianco e nero nella quale gli under 30 preferiscono il divano alla fatica; si evoca la capacità di sacrificio delle vecchie generazioni, sconosciuta alle nuove, poi di solito si tira in ballo il reddito di cittadinanza.
L’ultimo è lo chef televisivo Alessandro Borghese, che si è sfogato sul Corriere della Sera: “Vuoi diventare Alessandro Borghese? Devi lavorare sodo. A me nessuno ha mai regalato nulla”; “Mi sono spaccato la schiena io… Ho saltato le feste di compleanno delle mie figlie, gli anniversari con mia moglie”; “Oggi i ragazzi preferiscono tenersi stretto il weekend con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi sente arrivato e la pretesa di ricevere compensi importanti da subito. Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati”; “Io prestavo servizio sulle navi da crociera con ‘soli’ vitto e alloggio riconosciuti”.
Borghese omette dettagli della sua biografia che potrebbero aiutare a decifrare il contesto: è figlio dell’attrice Barbara Bouchet e dell’imprenditore Luigi Borghese, si è diplomato all’American Overseas School of Rome, una scuola privata che costa poco meno di 25mila euro l’anno. L’agiatezza familiare non è una colpa, sia mai, ma potrebbe consigliare prudenza a chi parla di lavoro gratuito. Borghese però non deve temere di essere “impopolare”, come dice. Di certo non è solo: quello sui giovani fannulloni è un genere giornalistico antico, che torna ciclicamente di moda.
Una breve galleria. “Quello che dice lo chef Alessandro Borghese è la verità: molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo. Io lo vedo chiaramente: preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera” (Flavio Briatore, Corriere, 15 aprile 2022); “Vediamo gente che ha bisogno di lavorare, ma non ha la voglia né l’umiltà per farlo. Sono fermamente convinta che si debba in qualche modo generare fame… Non si tratta di voler punire, ma di cercare di creare una classe lavoratrice strutturata. Il lavoro c’è, bisogna solo avere fame” (Viviana Varese, chef stellato, Corriere, 13 aprile 2022); “Sono arrabbiata e delusa da chi non rispetta la fatica e l’impegno necessari per stare in una cucina. Lo scorso fine settimana il ragazzo che avevo in prova, per sostituire una persona fidata, dopo neanche un giorno ha chiesto un permesso per una visita medica… Grande mancanza di professionalità” (Cristina Bowerman, chef stellata, Repubblica, 10 giugno 2021); “I ragazzi nuovi che entrano spesso preferiscono stare a casa oppure considerano il lavoro un ripiego. Manca l’entusiasmo” (Marco Sacco, chef stellato, Repubblica, 10 giugno 2021); “La migliore e più fruttuosa stagione è alle porte, eppure in tutta Italia non si trova il personale di sala e di cucina. Sembra incredibile, ma è così. Il reddito di cittadinanza spinge a rimanere comodamente sul divano” (Paolo Bianchini, presidente dell’associazione di categoria Mio, Il Tempo, 24 maggio 2021); “Il signor Claudio Ortichi, albergatore di Castel San Pietro in provincia di Bologna, si era messo in testa di assumere una cameriera italiana (…) Invece ha rimediato deserti sconfinati di silenzio, interrotti da qualche timidissima avance” (“La cameriera scomparsa” di Massimo Gramellini, Corriere, 17 luglio 2017).
Di frasi come queste se ne trovano decine: è il racconto del lavoro nella ristorazione che viene premiato sui media tradizionali. Poi c’è la realtà, l’altro lato della barricata. I numeri: nell’Italia in uscita dalla pandemia, il settore alberghiero e della ristorazione è penultimo nella classifica delle retribuzioni (peggio solo l’agricoltura) e ai primi posti per utilizzo di personale irregolare (numeri della Fondazione Di Vittorio, anno 2021). Le imprese del turismo hanno quasi un terzo dell’organico con contratti part time (28,7%), il 70% dei quali involontari. Anche le testimonianze dello sfruttamento quotidiano, della negazione dei diritti basilari, del lavoro al di fuori della legge e al di là della decenza sono ampiamente documentate da chi le ha subìte, basta andarle a cercare. Il Fatto ha parlato con un giovane capo partita di una cucina stellata di Milano: un lavoratore più che qualificato, con una responsabilità importante. “Come molti colleghi – racconta, sotto promessa di anonimato – per accedere alle cucine degli stellati ho seguito una scuola di alta formazione gestita dallo stesso chef del ristorante. Queste scuole costano tra i 10 e i 15mila euro. I partecipanti vengono poi impiegati in quelle cucine da stagisti, per completare l’abilitazione, al posto di chi va in ferie. Gratis o con rimborsi spese di 200 o 300 euro. Per i più bravi, che vengono presi, si lavora con turni massacranti, dalle 9 alle 23. Io, da capo partita, svolgo anche le seguenti mansioni: carico e scarico merci e pulizia della cucina. Lavoro 7 giorni su 7, guadagno 1.200 euro al mese, senza straordinari, inquadrato come lavapiatti. Così sul mio contratto pagano meno tasse”.