La Stampa, 17 aprile 2022
A Londra una mostra su calcio e design
La numero dieci di Roberto Baggio e il poster di Italia 90 con l’Olimpico di Roma come culla della mascotte Ciao. A un italiano che guarda «Football: designing the beautiful game», mostra appena aperta al Museo del design di Londra, possono capitare tre cose. Ricordare perché da bambina o bambino si è innamorato o innamorata di questo gioco, impazzire di nostalgia o guardare dritto in faccia il motivo per cui più della metà degli abitanti di questa terra segue i Mondiali.
Chi ha progettato il viaggio in 500 oggetti lo ha fatto per rilanciare l’idea che il pallone si muove e ci trascina con lui e ci sposta e ci fa segnare le date sul calendario e ci fa pure capire, più spesso di quanto non si creda, che cosa è cambiato. Che cosa sta per cambiare. Così si può tornare indietro liberi di non restare incastrati nel passato. Non è il percorso ideale per chi rimpiange le maglie come erano una volta o la centralità del calendario Panini negli anni in cui i giocatori li vedevi quasi solo lì, è la prova che il calcio ha creato un’industria, una moda, un legame con la società. Un amore che dura nel tempo. Lo si racconta, con foto, pezzi da collezione, video, riproduzioni: l’anticipo che continuamente scarta l’ovvio e svela il passaggio successivo. Può essere l’assist per il progresso, come le bandiere arcobaleno negli stadi degli ultimi Europei o le 100 mila persone davanti al mondiale femminile alternativo del 1971 oppure può essere il retropassaggio per un crollo imminente. I simboli di un hooliganismo da sfoggiare, i buu del razzismo che proprio in mezzo alle partite dimostra di non essere superato. Dietro ogni trasformazione una sfida, un gol, una divisa che spesso è memoria collettiva, un angolo del carattere di una generazione o la parziale impronta di un Paese.
Viene ribaltata la maglia del Brasile che da bianca si fa bandiera dopo la vergogna del Maracanà, dopo la finale persa, in casa, nel 1950 contro l’Uruguay. L’umiliazione si ripete nel 2014, ma i simboli reggono, protetti dalle magie venute prima, con i colori verde, blu e oro e salvaguardati da un diverso modo di piangere o sfogare la sconfitta. Il periodo segnato da un dopoguerra globale in cui reclamare i sogni infranti è uno struggimento di decenni contro gli anni di un conflitto di classe senza fine che si divora tutto. In uno Stato travolto dalla corruzione, la devastazione è tale che neanche 7 gol rimediati dalla Germania possono rappresentare un dolore a lungo termine. Non c’è spazio.
A Londra si possono ammirare le scarpe scarabocchiate di un George Best adolescente, a quell’età ancora scriveva il nome degli avversari contro cui segnava. Avrebbe poi smesso, troppi nomi, gli sarebbe stato più facile annotarsi le squadre mancanti all’appello. Sotto vetro ci sono i loghi che anticipano uno stile e il Museo del design espone il marchio della Juventus, passato dalla infantile zebra all’adulto lettering, l’esempio di un codice che si rinnova e intercetta il gusto. I club, come il modo di dichiararne l’appartenenza, interpretano i sentimenti e chi si muove prima ha un vantaggio su un pezzo di futuro.
Pure l’esperienza lascia le sue tracce. Il pallone senza più lacci della prima finale Mondiale, 1930 è la metà di un risultato perché in quel confronto aveva un doppione, un gemello portato dall’Argentina. Con la loro palla, vincono il primo tempo 2-1 e poi entra in campo quella dell’Uruguay e c’è il sorpasso: 4-2. Ci avrebbe pensato lo sponsor a livellare la competizione. La mostra invece pareggia altri conti. Non è concepita da una prospettiva maschile e il calcio femminile non ha un angolo di rappresentanza, una quota confinata in una qualche sala, occupa ogni angolo della cronologia. Ogni tiro decisivo.
Tra i dieci, in mezzo a Maradona e Messi c’è l’americana Michelle Akers, protagonista ai Mondiali 1990, nella sfilata di scarpe ci sono i modelli creati apposta per le donne nella metà degli Anni Ottanta. Nella parata di foto indelebili c’è il giorno in cui un’Inghilterra non ufficiale alza una coppa del mondo non riconosciuta in Messico, in uno stadio Azteca tutto esaurito. Calci in avanti.