La Stampa, 17 aprile 2022
Intervista a Gabriele Mainetti
«Il mio terzo film sarà ancora più matto». Saluta così Gabriele Mainetti, già al lavoro sul prossimo progetto, dopo le 16 candidature che Freaks Out, sua opera seconda scritta insieme a Nicola Guaglianone, ha ottenuto ai David di Donatello 2022. La cerimonia di premiazione sarà agli studi di Cinecittà il 3 maggio, con Carlo Conti e Drusilla Foer a condurre. Lo dice con una luce negli occhi, quella che ha ogni volta che parla di cinema. Attore prima che regista, Mainetti ama la settima arte in modo viscerale. Ricevere di nuovo un numero così alto di candidature ai David (all’esordio con Lo chiamavano Jeeg Robot nel 2016 ne prese 17, vincendo 8 premi) è anche un riconoscimento alla sua passione: per promuoverlo, ha presentato personalmente Freaks Out, storia di un gruppo di circensi nella Roma del ’43, ogni giorno in una sala cinematografia diversa d’Italia per un mese.
«Al di là del bisogno di raccontare la diversità, che è il centro nevralgico del film, Freaks Out l’ho sempre sentito come un atto d’amore nei confronti del cinema italiano. Il cinema si può fare bene soltanto insieme ai collaboratori. Il regista che pensa di sapere già tutto da subito non sa nulla. Non potrai mai sapere più del tuo scenografo, o del direttore della fotografia. Puoi dare un’idea di quello che vuoi, ma conta il gruppo. Queste candidature mi hanno accarezzato tantissimo. Sono contento per tutti quelli coinvolti: hanno dato veramente l’anima, il cuore e anche il corpo, perché le riprese sono durate tanto».
Lo sforzo produttivo è stato importante.
«È costato 13 milioni: non c’era esperienza per un film di questo tipo, abbiamo dovuto riconsiderare il budget in corsa. Lucky Red e Goon Films, la mia società, hanno finanziato il film fino a quando, per poter continuare a girare, sono state costrette a investire. Noi abbiamo messo tutto quello che avevamo guadagnato con Jeeg. Rai Cinema è stata poi determinante perché ci ha permesso di chiudere il lavoro. Ogni giorno abbiamo capito come fare quello che prima non si sapeva fare. Ne siamo usciti provatissimi, ma con un modello produttivo nuovo».
È ambientato nella Roma occupata dai nazisti: immagini sfortunatamente attuali.
«Raccontiamo il rastrellamento degli ebrei il 16 ottobre ’43 a Roma. La mia famiglia è nata vicinissimo a dove è successo: quando penso alla Seconda Guerra Mondiale non posso non imbattermi in questa tragedia. Abbiamo scelto di metterlo in scena per ricordare. Anche perché ci sono dei tentativi orrendi di revisionismo».
Il film non lascia indifferenti: ha fatto tesoro anche delle critiche?
«Non voglio fare quello che quando qualcuno non apprezza il suo lavoro dice: non mi capiscono. Se a te non piacciono Mad Max ed E. T. non potrai mai apprezzare i miei film. Il mio lavoro ha a che fare col fantastico, paragonarlo a Freaks di Tod Browning vuol dire non essere entrato nello spirito dell’operazione. Ma ci sta. Dalle critiche ho cercato di capire dove ho sbagliato e dove migliorare».
Come per Jeeg, gli attori, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto e Franz Rogowski, sono nominati.
«Raccontare il fantastico in un mondo italiano – per cultura siamo come San Tommaso, facciamo fatica a sospendere l’incredulità – penso si possa fare soltanto attraverso dei personaggi veri e credibili. Una volta scritti in questo modo devi prendere degli attori bravi. Avendo fatto tanto l’attore ho un rapporto viscerale con loro. Non immagino il film se non sento prima gli attori parlare. Vederli nominati mi fa felice. Franz Rogowski si è completamente trasformato: nella vita è un’altra persona. Verrà in Italia per la cerimonia».
È più importante lavorare bene o vincere premi? Will Smith agli Oscar fa pensare.
«Un gesto bruttissimo. Non ho apprezzato nemmeno Chris Rock: non se ne può più del body shaming. Mi è dispiaciuto per tutti: per loro, per l’Academy, per me che stavo guardando. Surreale. Ma non riesco a volergli male: so quanto gli attori siano fragili. Quando ha fatto quel discorso, dicendo di essere un messia dell’amore, ho capito il suo errore: non bisogna credere di essere più di ciò che si è. Nel suo caso un grandissimo attore. I premi contano, assolutamente. Sopratutto quelli che hanno una storia importante come i David. Essere nominato insieme a registi come Sorrentino, Martone e Tornatore è meraviglioso».
Che futuro ha la sala?
«Oggi lo spettatore esce e spende se veramente ne vale la pena. Vuole l’evento. Ne fanno le spese i film più piccoli e ne beneficia chi crea un rapporto di fidelizzazione col pubblico. Purtroppo in Italia ora l’affluenza in sala è molto bassa. Ma io non mollo».
Il terzo film è sempre ambizioso?
«Sto facendo i provini. Dovrei girare tra agosto e ottobre. Produttivamente è più piccolo. È sempre di genere, qualcosa che non si improvvisa: devi averlo amato da bambino, conoscerne i tempi e i codici. Vorrei che il cinema di genere fosse visto e rispettato di più. Non è semplice evasione, merita attenzione. È fatto con grande difficoltà e impegno: c’è tanta ricerca».