Corriere della Sera, 17 aprile 2022
Stati Uniti, più trivelle contro la crisi
La guerra in Ucraina spinge Joe Biden ad accantonare una delle sue promesse elettorali: «Basta con le trivelle nelle terre di proprietà federale». Ora la Casa Bianca deve fronteggiare una possibile e imprevista crisi energetica. Serve più petrolio, più gas. Domani, lunedì 18 aprile, l’Amministrazione metterà all’asta le licenze per le esplorazioni petrolifere in 144 mila acri, pari a circa 586 chilometri quadrati di territorio federale, distribuiti tra nove Stati. In un primo momento sembrava che il piano prevedesse un’estensione molto più ampia, intorno ai 3.500- 4 mila chilometri quadrati. Confermato, invece, l’aumento delle «royalties» che le compagnie petrolifere dovranno versare alle casse di Washington. La percentuale era ferma da quasi cento anni al 12,5 %; ora salirà al 18,75%.
Nelle ultime settimane i repubblicani hanno esercitato forti pressioni, perché Biden rilasciasse nuove licenze. Ma ancora l’8 marzo scorso, il presidente aveva respinto pubblicamente la richiesta, facendo notare che le grandi corporation avevano già a disposizione «novemila permessi» per avviare le perforazioni.
Costo e opportunità
Estrarre un barile di petrolio negli Usa costa 70 dollari. Oggi i prezzi giustificano la spesa
In effetti lo scenario è piuttosto intricato. Il 90% della produzione nazionale proviene da campi di proprietà privata. Solo il 10%, dunque, fa capo al governo Usa: sono 24 milioni di acri, oltre 97 mila chilometri quadrati. Negli anni, come ricordato da Biden, Washington ha approvato 9.173 permessi per cercare petrolio e gas. Ma, stando agli ultimi dati di fine 2021, almeno la metà di questo immenso spazio non è stato utilizzato. Per quale motivo? Il più importante chiama in causa i costi. Estrarre un barile di petrolio negli Stati Uniti comporta un esborso di 70 dollari per il produttore. Una soglia decisamente più alta rispetto alle medie internazionali. In Arabia Saudita, giusto per fare un esempio, l’incidenza per barile è pari a 10 dollari.
Dal 2015 al 2021 la quotazione media del petrolio è stata sempre più o meno nettamente inferiore a 70 dollari. Le grandi corporation americane, quindi, non hanno avuto incentivi a investire in altri pozzi. Adesso il prezzo del greggio si aggira sui 100 dollari e il quadro delle convenienze economiche potrebbe cambiare, specie se i Paesi europei e quelli asiatici confermeranno anche nei prossimi anni l’impegno a ridurre o eliminare la dipendenza dagli idrocarburi russi. In ogni caso, si stima che bisognerà aspettare almeno un anno prima che le nuove licenze portino a un aumento dell’offerta. I margini dei profitti aziendali saranno erosi dall’aumento delle «royalties», mentre il Tesoro Usa conta di migliorare gli incassi che lo scorso anno sono stati pari a 5,5 miliardi di dollari.
Biden, però, dovrà fronteggiare le proteste degli ambientalisti, rilanciate dalla sinistra del partito democratico. Il presidente americano aveva messo in cima alle priorità il contrasto al «climate change», promuovendo un piano di grandi investimenti, il «Build back better» per favorire anche la riconversione energetica. Non è riuscito a farlo approvare, almeno finora, per l’ostruzionismo di Joe Manchin e Kyrsten Sinema, senatori legati alle lobby dei combustibili fossili. Ora le cose sono cambiate al punto che Biden ha rivendicato: «durante il mio primo anno di presidenza gli Usa hanno prodotto più petrolio rispetto a quanto accaduto nello stesso periodo con il mio predecessore».