corriere.it, 16 aprile 2022
Come fu medicato il piede ferito di Garibaldi
MILANO – Agosto 1862, cime dell’Aspromonte; è questo lo scenario di uno dei momenti più delicati dell’Unità d’Italia, ma anche dell’inizio di una vicenda sanitaria ad alta suspense, fortunatamente a lieto fine. Protagonista Giuseppe Garibaldi, ferito nel combattimento con l’esercito piemontese. La battaglia dura appena dieci minuti, ma il Generale rischia seriamente l’amputazione della gamba destra. La storia è nota, meno noto ai più è forse l’ampio schieramento di medici e chirurghi impegnati per salvare l’arto ferito dell’illustre paziente. Il 29 agosto Garibaldi è in Calabria, al comando di un nutrito gruppo di volontari, nel tentativo di completare la sua marcia dalla Sicilia con la conquista di Roma. L’azione non è gradita al Governo piemontese che affida il compito di fermare i garibaldini al generale genovese Emilio Pallavicini, marchese di Priola, alla guida di circa tremila soldati regolari. Duro lo scontro tra garibaldini e bersaglieri, 12 morti e 34 feriti nei due schieramenti, poi la resa e la cattura di Garibaldi, raggiunto da due pallottole di carabina. Una, all’anca sinistra, lacerava la pelle e il sottocute senza, però, gravi conseguenze. L’altra, dimostratasi poi la più pericolosa, dopo aver bucato il calzone di panno, lo stivale e la calza di lana, si conficcava nel malleolo interno del piede destro.
Garibaldi viene rapidamente soccorso dai chirurghi garibaldini Enrico Albanese, Pietro Ripari e Giuseppe Basile. La ferita al piede non si presenta bene. A paventare per primo il rischio di una temibile gangrena gassosa e della amputazione, è Albanese, già medico di battaglione durante la spedizione dei Mille. Le intuizioni e le scoperte del medico ungherese Ignac Semmelweis e del collega britannico Joseph Lister sulla disinfezione e l’asepsi chirurgica erano ancora da venire. L’amputazione era l’intervento in uso, per bloccare la gangrena nei feriti da arma da fuoco, da eseguire rapidamente, spesso direttamente sul campo di battaglia. Dominique Jean Larrey, esperto chirurgo militare napoleonico, in soli tre minuti effettuava sul campo un’amputazione di coscia con metodo circolare. Il fatto, data la sua grande esperienza di guerra, è ben noto a Garibaldi, che, rivolgendosi ad Albanese, gli dice: «Se credete necessaria l’amputazione, amputate». Un’evidente tumefazione al malleolo colpisce l’attenzione del chirurgo che, sospettando una ritenzione del proiettile nel piede, esegue un taglio longitudinale di circa tre centimetri, in modo da poter estrarre il proiettile. Ma il tentativo fallisce. Si decide a quel punto di soprassedere a qualsiasi altro intervento, la lesione viene medicata e fasciata e il ferito, adagiato su una barella di fortuna, è imbarcato sulla fregata Duca di Genova, che fa rotta verso La Spezia, sede del carcere di Forte Varignano che allora ospitava circa 250 detenuti, condannati ai lavori forzati.
Al capezzale di Garibaldi vengono chiamati i più illustri clinici e chirurghi dell’epoca: il professor Francesco Rizzoli di Bologna e il professor Luigi Porta di Pavia. Garibaldi ha già invitato i professori Fernando Zanetti di Pisa e Giovanni Battista Prandina, da Chiavari. Presenti anche i dottori Giuseppe Di Negro da Genova e Timoteo Riboli da Torino, che già avevano curato Garibaldi per altre circostanze. L’obiettivo dei medici è ovvio: salvare Garibaldi dall’amputazione. Nei giorni successivi le condizioni cliniche dell’eroe si aggravano: la tumefazione dal malleolo del piede destro interessa anche la gamba, il dolore è più forte, la febbre alta. La diagnosi, condivisa da tutti i clinici, non ammette dubbi: “ferita da arma da fuoco penetrante nell’articolazione tibio-tarsica, con frattura del malleolo interno, complicata da flemmone per presenza di sospetto corpo estraneo nell’articolazione”. La presenza del proiettile nella ferita rimane solo un sospetto senza possibilità di diagnosi oggettiva. I raggi X verranno scoperti, infatti, da Roentgen solo nel 1895 e la prima radiografia in Italia sarà eseguita a Bologna non molto tempo dopo da Augusto Righi.
L’eco del ferimento di Garibaldi supera i confini nazionali. Il 10 settembre, giunge in Italia Richard Partridge, membro del Royal College dei chirurghi di Londra, che ritorna per visitarlo il 31 ottobre, questa volta in compagnia del famoso chirurgo Nikolai Pirogoff da Pietroburgo. Nonostante tanti autorevoli interventi clinici la gamba di Garibaldi continua a peggiorare, tanto che il medico Agostino Bertani evoca di nuovo lo spettro dell’amputazione. Al felice epilogo della vicenda contribuisce l’intuizione del chirurgo napoletano Ferdinando Palasciano che si convince della presenza della pallottola nel piede e consiglia di intervenire al più presto per estrarla. Per l’occasione chiede la consulenza del chirurgo Auguste Nélaton, che giunge da Parigi per visitare Garibaldi, confermando l’ipotesi del proiettile ritenuto. Costretto a rientrare con urgenza in Francia, Nélaton invia ai colleghi in Italia due sondini, di sua invenzione, che terminano con una piccola sfera di porcellana, usati proprio per individuare il proiettili nelle ferite. Introdotta nella ferita, la pallina di porcellana della sonda, a contatto con il piombo del proiettile si annerisce, confermandone la presenza. Il 22 novembre il chirurgo Zanetti pratica nel piede di Garibaldi, ormai in gravi condizioni, un’incisione profonda 4 centimetri ed estrae una pallottola di carabina del peso di 22 grammi. L’amputazione è così definitivamente scongiurata.
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Sull’uomo che aveva sparato a Garibaldi
Questa è la storia di un eroe che non voleva essere un eroe. La storia di un gesto che avrebbe dovuto cambiare la storia e che oggi possiamo dire con certezza che la cambiò. Questa è la storia di un uomo che avrebbe voluto dimenticare quel gesto. Perché questa, soprattutto, è la storia di un atto di coraggio raccontato come atto di viltà. Questa è una storia antica in cerca di riscatto. Il bel saggio scritto a quattro mani da Arrigo Petacco e Marco Ferrari dal titolo “Ho sparato a Garibaldi”, edito da Mondadori è tutto questo e qualcosa di più.
Se ancora oggi si canticchia la canzone “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion!” in pochi sanno chi fu a sparare all’Eroe dei Due Monti il 29 agosto 1862 sull’Aspromonte: si trattava del bersagliere Luigi Ferrari, nativo di Castelnuovo Magra, provincia della Spezia. Luigi fu l’unico eroe del Risorgimento a non poter andare fiero del suo gesto eppure fu centrale e decisivo nella stagione che fece nascere l’Italia. Lui sparò a Garibaldi per obbedire ad un ordine, ma non lo uccise perché decise di non farlo. Abbasso il fucile e mirò alla gamba. Quel gesto salvò il Risorgimento e con lui la storia del nostro Paese così come la conosciamo oggi.
«Forse non esisterebbe neppure l’Italia», ricorda oggi Marco Ferrari. Luigi di cui porta il cognome appartiene alla sua discendenza e a quella di Arrigo Petacco: «Avevano in comune la sua foto. Inevitabile pensare di scriverne insieme la storia». Quel gesto fu istintivo: «Si trovò davanti l’eroe del Risorgimento ma non lo colpì deliberatamente a morte, mirò alla gamba e al piede. E lui sapeva maneggiare bene le armi. In quello scontro sull’Aspromonte, il primo fratricida da italiani, vi furono dodici morti e una cinquantina di feriti, tutti ai piedi. Logico pensare che non volessero uccidersi tra loro. E così fece Ferrari». Ottenne la medaglia d’oro. Ma la motivazione rappresenterà il suo cruccio e la sua rovina. “Adempì all’amaro compito di comunque fermare il generale Garibaldi in marcia verso Roma. Aspromonte 1862”. Quel termine, “amaro”, gli si piantò nell’animo, nella mente, sulle spalle, e non lo abbandonò mai un solo istante.
Un tormento che i due autori descrivono così: “La notte si svegliava di soprassalto: nel sonno compariva un signore vestito di velluti a coste, berretto molle e fiocco di seta e lino di un color opaco, annodato al collo alla lavallière, che gridava: «È lui che ha sparato a Garibaldi. Traditore!». Temeva i rivoluzionari e i socialisti, i garibaldini e i mazziniani, benché in cuor suo non fosse altro che un brav’uomo che aveva risposto, appunto, all’ingrato ordine dei superiori di fermare Giuseppe Garibaldi. E quando camminava nelle viuzze o si trovava sotto gli archivolti che univano le quattro strade del suo paese, Castelnuovo Magra, svicolava via radente le abitazioni come un’ombra che non vuole confondere la propria forma con altre. Cercava, senza riuscirci, di trattenere il fiato. Anzi, il respiro si faceva sassoso, asmatico. Il cuore batteva a mille. Temeva che un folle, uno sconsiderato, un ribelle arrivasse sino a quel cucuzzolo di case sospese tra le nuvole attirato dall’idea di vendicare il generale e diventare, a suo modo, un personaggio della storia: l’uomo che aveva trafitto il cuore a Luigi Ferrari, medaglia d’oro al valore ingrato, indegno decorato della patria!”
«Mi avete colpito volontariamente in basso?» gli aveva chiesto l’Eroe dei Due Mondi a Scilla. «Fin da ragazzo sono stato abituato a tirare di caccia. Ho preso un merlo a trenta metri quando avevo dodici anni» gli aveva risposto Ferrari. Ma quel breve incontro non fu sufficiente a ridargli l’onore che meritava. Tornò a Castelnuovo Magra, ferito a sua volta e con un piede di legno, in veste di sindaco con il segno indelebile della sua poco onorevole impresa, tanto che, una volta scoperto quale feritore di Garibaldi, fu costretto ad allontanarsi. Respinto anche a Castelnuovo, Luigi Ferrari si trasferirà alla Spezia ma troverà la forza del riscatto e tornerà come sindaco una seconda volta. Morirà con la fascia tricolore alle ore quindici e cinquanta minuti di martedì 22 ottobre 1895 nella casa paterna: “Noi autori, entrambi discendenti di Luigi Ferrari, pensiamo di avergli restituito un po’ di onore svelandone la sua vita avventurosa, sconsolata e maledetta, segnata dall’amore mai vissuto per la bella Martina e da quell’episodio dell’Aspromonte, sino alla redenzione finale, restituendo il ritratto della Spezia dell’epoca, di un piccolo borgo di confine, di una comunità e di una famiglia che ha sempre difeso quel povero soldato che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini”.
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