Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera”, 15 aprile 2022
MASSIMO ASCOLTO! “LO VUOI FARE UN PEZZO CON ME?” – MASSIMO LOPEZ RICORDA QUANDO MINA LO CHIAMO’ DOPO AVERLO SENTITO CANTARE “LUCY” NELLA SIGLA FINALE DELLA PARODIA DEL TRIO DEI PROMESSI SPOSI: "PENSAVO FOSSE UNO SCHERZO” – I DUE INFARTI, UNO SUL PALCO, L’ALTRO POCHI MESI FA IN TRENO, TROISI (“ACCENDEVAMO LA TV SENZA AUDIO E DOPPIAVAMO IN MODO IMPROBABILE LE TRASMISSIONI PIÙ FAMOSE”), LE PUBBLICITA’ CON SOLENGHI (“IL NONNO CHE NON HO MAI AVUTO”) E QUELLA VOLTA IN MACCHINA CON ANNA MARCHESINI… - VIDEO -
Massimo Lopez, in questi giorni lei è in tournée con Tullio Solenghi, come ai vecchi tempi. La vostra è un'amicizia solida? «Certo, per me è un fratello. Anzi, di più: è il nonno che non ho mai avuto».
Ahia, se la sentisse... «Mi ripudierebbe. Ma no, è una delle gag che facciamo da tempo. Tullio non è solo un amico, per me è una protezione. Con lui e Anna (Marchesini, ndr ) c'era una familiarità che negli anni è diventata affetto profondo, legame vero».
Il Trio è nato con lei e Anna che vi siete incontrati in una sala doppiaggio, vero? «Sì, doppiavamo i cartoni animati giapponesi e le lascio immaginare che cosa veniva fuori. Anzi, qualche volta noi non ci attenevamo ai copioni e inventavamo le battute. Lei se ne usciva con cose come: "Ma signor Yakatomo, che cavolo vuole da me?". I produttori erano furibondi».
Una delle «pietre miliari» del Trio è stata la parodia dei Promessi Sposi. «Ho settant' anni e posso dire che quelli sono stati i giorni più divertenti della mia vita. Una volta, mentre stavamo girando, mi presi una pausa e andai al bar. Ordinai un'aranciata e mi misi a giocare a flipper. Tutti mi guardavano e non capivo perché. Poi realizzai: ero vestito da Monaca di Monza».
C'era anche la Monaca di Ponza, no? «Sì, con Anna che prendeva il sole da una cella. Ma c'era anche la Foca Monaca, cioè io intrappolato in un costume strettissimo da foca. Quel giorno decido di fare una ramanzina alla troupe e inizio a sbraitare con impeto sempre maggiore, a puntualizzare errori e disattenzioni ma... sempre vestito da foca. Imbarazzo in scena, Anna e Tullio che si voltano dall'altra parte, tutto finisce con me che scoppio a ridere».
Quando ha deciso di fare l'attore? «Da bambino intrattenevo la famiglia con imitazioni e canti, poi però mi sono iscritto a Lingue. Prima lezione: la prof comincia a spiegare ma, a un certo punto, indica me e prende a interrogarmi. Non resisto, esco e da allora non ho più rimesso piede all'università. È stato in quell'istante che ho deciso di fare seriamente l'attore, da sempre innamorato delle "quinte", da quella particolare prospettiva in cui sei invisibile ma controlli tutto. Poi è arrivato il Trio».
Teatro, sceneggiati televisivi, popolarità. «La cosa che più mi ha sorpreso è stata la mia voce. Non ho mai studiato canto, ma nella sigla finale dei Promessi Sposi io cantavo Lucy , nei panni di un improbabile Manzoni. Ebbene, Mina mi ascoltò e un giorno mi telefonò».
Mina in persona? «E la sua voce è abbastanza riconoscibile, impossibile confonderla, anche se pensai a uno scherzo. Mina mi disse che le piaceva la mia voce, mi invitò a Lugano a incidere un brano con lei da inserire nell'album Canarino Mannaro .
"Lo vuoi fare un pezzo con me?", mi chiese. Immaginate la mia incredulità. Solo quando mi trovai a casa sua realizzai che era tutto vero».
Come andò? «Lei fu umanissima, accogliente. Io però volevo farle credere di essere un habitué delle sale d'incisione. Mi avviai con passo spedito, aprii una porta. Peccato che fosse l'anta di un mobile.
Lei capì e allora fu una presenza discreta: mentre incidevamo Noi , il titolo della canzone, uscì e rientrò con due margherite che depose vicino al microfono. Poi volle cucinare e io non riuscivo ancora a credere di essere a casa di Mina con lei che preparava gli spaghetti per me».
Sua madre Gigliola era una fan della cantante, vero? «Sì e allora decisi di chiamarla per farle sentire la voce di Mina. Quando le rivelai che stavo incidendo una canzone con lei, mia madre se la fece passare al telefono. Sa che cosa le chiese? "Com' è andato mio figlio? È abbastanza bravo?"».
Gigliola è mancata tre anni fa. Vive ancora, in qualche modo, in lei? «Lo dico piano, non vorrei essere frainteso perché non ho tentazioni misticheggianti. Ma a volte, anche in aperta campagna, io sento il suo profumo. È una sensazione concreta, olfattiva, fortissima. Una volta è successo che anche mio fratello che era con me lo sentisse. Non abbiamo commentato, non ne parliamo mai. Ma quel profumo, giuro, io lo sento davvero».
Lei è un attore brillante, ha ricoperto ruoli comici, spesso al limite del paradosso. Come vive il dolore? «Altro aneddoto. Quando affrontai il mio primo lutto, la scomparsa di papà, ad un certo punto mi piazzai davanti allo specchio e mi misi a ridere. A ridere forte, in modo caricaturale. Perché volevo essere ancora sicuro di riuscire a ridere in mezzo a tanto dolore».
E come vive la felicità? «Cercando di riconoscerla. Ho avuto due infarti, uno "di dominio pubblico", perché avvenuto nel 2017 mentre ero sul palcoscenico, un altro invece avvenuto qualche mese fa e del quale sto parlando adesso per la prima volta, qui.
Peraltro il secondo è stato ancora più drammatico, perché ero in treno e ho viaggiato tre ore con un attacco di cuore in corso, ho rischiato seriamente. Dico questo perché dopo ogni momento così delicato ho sempre cercato di "ritrovare" la vita, di vedere da vicino le cose che contano, come se osservassi tutto dall'alto. È stato allora che ho riconosciuto la felicità. Nelle cose che ancora mi era concesso di fare. Ecco, forse per me la felicità è un ritrovamento, un recupero».
Ha sentito l'affetto del suo pubblico? «Moltissimo. Gente che scriveva, che si informava. Ma quello, grazie al cielo, l'ho sempre avvertito. Ricorda quando ero il protagonista di un celebre spot televisivo che aveva per slogan la frase "Una telefonata allunga la vita"? La scena era questa: io in un fortino, davanti al plotone di esecuzione, che (come ultimo desiderio) chiedo di poter fare una telefonata. Ma una telefonata che va avanti per giorni, mesi, anni. Lo sa che mi scrissero tante persone preoccupate per il mio destino, vedendomi davanti a un plotone?».
Tullio Solenghi, invece, stava in Paradiso e beveva caffé. «Ah, quella è un'altra cosa da raccontare. I patiti di spot ricorderanno che ad un certo punto le due pubblicità si unirono, con il "mio plotone" che sparava in cielo e colpiva Tullio, il quale mi raggiungeva. Fui io a chiedere alle due grandi aziende di fare una pubblicità assieme. Incredibilmente mi dissero di sì. Volevo Tullio vicino».
Nell'autobiografia dal titolo «Stai attento alle nuvole» - scritta per Solferino Libri assieme a Sante Roperto - lei fa un affettuoso ricordo di molti amici. Spicca Massimo Troisi. Come vi siete conosciuti? «Grazie a un amico comune, Giovanni Benincasa, autore televisivo. Fu Giovanni a proporci una trasmissione in seconda serata su Rai2, Massimo Ascolto , una delle mie prime volte senza il Trio. Troisi accettò con entusiasmo, poi però, venne a mancare e allora il suo posto venne preso da attori di volta in volta diversi. Massimo per me è stato importantissimo. Veniva a trovarmi a casa a Miami, ci mettevamo in soggiorno e sa che cosa facevamo? Accendevamo la tv ma senza audio e ci divertivamo a doppiare in modo improbabile le trasmissioni più famose».
Solenghi invece lo conosce sin dai primi anni Settanta? «Sì e pensi che ironia del destino: nel 1976 feci il mio esordio a teatro, a Genova, ne Il fu Mattia Pascal . Arrivai a sostituire proprio Tullio, che aveva dovuto rinunciare all'ultimo momento».
Da chi ha imparato il senso dell'umorismo? «Da mia madre. Mi faceva leggere Achille Campanile e se lei ricorda tra i personaggi di questo autore straordinario ce n'è uno, il Povero Piero. Una volta con mamma andammo ad un funerale, un caro amico di famiglia. Che si chiamava Piero. Quando il sacerdote se ne uscì con "il povero Piero" io e mia madre ci guardammo. Trattenemmo a stento le risate».
Lei ha lavorato con Albertazzi, Asti, Lionello, poi in tv con Pippo Baudo. «Da tutti ho imparato qualcosa, anche se non dimenticherò mai i due primi incontri importanti della vita. Quando ero bambino e scoprii che vicino a casa nostra, a Roma, vivevano sia Corrado che Walter Chiari. Mi appostai vicino alle loro abitazioni fino a quando non mi videro e così mi presentai. Walter mi fece addirittura entrare. Lo "spettacolo" era già nelle mie vene, anche se non sapevo che cosa fosse esattamente».
Nonna Titina però era una giudice severa. «Non me ne parli! Non si perdeva una trasmissione, faceva le pulci a ogni parte che ricoprivo, assegnava addirittura i voti». Lei non ha mai fatto cinema. Rimpianti? «No, ma non è un fatto di cui mi pento. Rifarei tutto, errori compresi. Mi sono divertito, ecco. Mi sono divertito a lavorare con Teo Teocoli, mi sono divertito a Ballando con le Stelle , nei lunghi anni con il Trio e a Sanremo, negli spot pubblicitari e a teatro.
Sono una persona riservata, della mia vita privata si sa pochissimo e devo ringraziare il mio amico Sante Roperto, con cui ho scritto l'autobiografia, perché è riuscito a rompere la mia riservatezza, a farmi raccontare non solo la mia vita ma anche parti della mia famiglia, a cominciare da mia madre».
È vero che qualcosa di cinematografico è nell'aria? «Non posso dire nulla».
È nell'aria, va bene. Concludiamo con un ricordo di Anna Marchesini, una delle attrici più amate nel nostro Paese? «Ma da dove comincio? Ce ne sono a migliaia. Una volta, in macchina, ci divertivamo a farci le interviste a vicenda. Esordisco io: "Signora Marchesini, ci racconti il percorso che l'ha portata a cotanto successo di pubblico, il cammino artistico che l'ha fatta diventare una delle attrici più talentuose". E lei: "L'ho data. Sì, l'ho data". Anna era straordinaria, perché sapeva inchiodare ogni forma di stereotipo rovesciandone la forza con autoironia, genialità. Mi manca molto».