la Repubblica, 15 aprile 2022
Chiamatela “guerra”
Si combatte con le armi e con le parole si discute. In un tweet Volodymyr Zelensky ha scritto: “Chiamare le cose con il loro nome è essenziale per resistere al male”. Intendeva così ringraziare Joe Biden per avere chiamato “genocidio” l’invasione russa dell’Ucraina, denominazione su cui si è immediatamente cominciato a discutere, in termini di prudenza o imprudenza e di adeguatezza o esagerazione. Bisognerebbe invece discuterla in termini di fretta o tempestività. Lo stesso Biden deve averlo sospettato se successivamente (in uno di quei tipici interventi correttivi che smorzano le uscite da comizio che intanto hanno fatto titolo di giornale) ha dichiarato: “Lasceremo che i giuristi decidano se designarlo così o no, a livello internazionale, ma di sicuro un genocidio è quello che sembra a me”.
Con quella di genocidio, le denominazioni concorrenti degli eventi russo-ucraini diventano così tre: “operazione militare speciale”, “guerra”, “genocidio”. Fra la prima e la seconda ci sono due differenze fondamentali. “Operazione militare speciale” è un eufemismo, mentre “guerra” è un termine proprio. In fondo non c’è guerra che non possa essere definita “operazione militare speciale”, espressione più astratta e meno diretta, che dà una connotazione minore eccezionalità, quasi normalità. Ogni potere usa eufemismi volentieri e in abbondanza, e anche Nato, Usa e governi europei hanno all’occasione impiegato espressioni ipocrite come “operazione di pace” e simili. A questo proposito si osserva però la seconda differenza: che in Occidente possiamo discutere, contestare gli eufemismi e rifiutarci di usarli, continuando a chiamare “guerra” la “guerra”; sotto Putin ciò non è possibile, perché il suo dominio autoritario ha la forza (non linguistica o semiotica, ma giuridica e repressiva) di imporre gli usi linguistici idonei per la sua propaganda e inibire quelli contrari.
Fra “guerra” e “genocidio” il caso è opposto. “Genocidio” è infatti un “disfemismo”, un termine peggiorativo, che nel linguaggio quotidiano si usa anche scherzosamente (l’esempio che fanno molti vocabolari è chiamare i genitori “i miei vecchi”).
“Genocidio” è peggio di “guerra” perché è un vero e proprio crimine, cosa che la guerra in sé non è, essendo anzi regolata da qualcosa che si chiama diritto bellico. Nulla può escludere che ciò di cui Putin si sta macchiando sia appunto un genocidio, ma è già lecito denominarlo così?
Ecco che la propaganda chiama tempestività la propria fretta. I tempi della giustizia, e quelli della storia (come ricordava Giovanni De Luna, nella sua intervista a Repubblica del 13 aprile), dicono che i crimini sono fattispecie che vanno determinati con certezza e questo il più delle volte può avvenire solo quando il fatto è compiuto. È possibile la flagranza quando il reato è un genocidio? Lo stesso Biden ha ammesso di non saperlo e di avere semplicemente espresso la sua opinione, anzi la sua impressione. È che la propaganda (quella dei buoni come quella dei cattivi) ha sempre tanta fretta e si spazientisce se gli esperti raccomandano prudenza. Lo si è visto con gli scienziati, virologi ed epidemiologi, sollecitati a dichiarare precocemente andamenti e picchi pandemici del Covid. Lo si vede ora con la guerra: perché se ancora non sappiamo se Putin stia commettendo un genocidio siamo altresì già più che certi che stia perpetrando una guerra di aggressione.
Potremmo casomai farci due domande. La prima: perché la guerra di aggressione non è un crimine, per il diritto internazionale? La seconda: perché abbiamo bisogno di parlare di “genocidio”, e di aggiungere alla nostra deplorazione un supplemento oltretutto precoce di gravità? Forse che non basta il senso, letterale e terribile, del termine “guerra” ?