Linkiesta, 15 aprile 2022
I piazzisti del sé della televisione italiana
Come se il declino delle élite non fosse sufficientemente certificato, per un attimo ieri ho pensato che, a sessant’anni dal “Penelope va alla guerra” di Oriana Fallaci, fosse il caso di scrivere “Il prosciutto va alla guerra”, la cronaca struggente – dalla quarta di copertina: fa ridere ma anche pensare – di cosa significa avere qualcosa da vendere quando la comunicazione (e cioè: gli spazi di vendita) è monopolizzata dalla guerra.
L’economia dell’attenzione funziona sempre nello stesso modo: prima era solo pandemia, ora è solo guerra, domani solo chissà. Ora è solo Ucraina, e un giornalista mi raccontava di recente d’aver ricevuto, da una profuga afghana con cui era in contatto, un messaggio che diceva: ma di noi non ve ne importa più niente? La stessa persona mi diceva d’essersi, tre anni fa, assicurata un’intervista a Zelensky che non è mai stata pubblicata perché la risposta del giornale fu qualcosa tipo «ma chi lo conosce».
Quindi ieri mattina mi sono svegliata e, invece di scendere in pigiama a prendere il cappuccino, mi sono vestita e persino pettinata (o quasi) e persino truccata, ho acceso la telecamera del computer e mi sono collegata con un talk-show del mattino, Coffee Break, peraltro condotto da colui che venticinque anni fa era il mio capufficio (in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti).
A un certo punto ho smesso di guardare la televisione. Se smettete di leggere perché vi sembra una frase scema, vi capisco: anni fa anch’io ritenevo «non ho la televisione» la più imbecille delle affermazioni. Poi mi si è frammentata l’attenzione, e ho smesso di riuscire a seguire qualcosa per più di dieci minuti, il che esclude qualunque programma della tv italiana (durata media: tre ore; percepite: quindici). Faccio uno sforzo la settimana di Sanremo, e poi ci metto un mese a riprendermi.
Questo per dire che sono ignara di molte delle dinamiche da talk-show: ne guardo brandelli se devo scriverne, ma ieri ero lì che assistevo come fosse inedito a uno spettacolo che probabilmente è noto a chiunque abbia con la tv un rapporto da spettatore costante.
La prima cosa che ho notato, collegata con Coffee Break, è stata la cartina. Quindi Andrea Pancani (il mio ex capufficio) lo sa, che non sappiamo di cosa stiamo parlando. Che ieri eravamo esperti di epidemiologia e oggi di Europa orientale e domani chissà, ma devono aiutarci con le illustrazioni per non farci fare brutta figura.
La seconda e più importante cosa è stata la disperazione. C’erano due ospiti in studio, un altro collegato da casa sua, e poi è arrivato un tizio a fianco d’un inviato. I quattro avevano in comune una cosa, e non era l’essere maschi (anche se a un certo punto ho meditato di mettermi a strillare «non mi fate parlare perché sono l’unica femmina», ma poi mi veniva da ridere: è un ottimo momento per approfittarsene, essendo donne, ma devi riuscire a restare seria se vuoi farlo).
La cosa che avevano in comune era «solo una battuta». «Solo una battuta» era la premessa con cui interrompevano il conduttore che tentava di toglier loro la parola, o si prendevano un turno di parola non loro. «Solo una battuta» era la premessa a un intervento d’un paio di minuti, e qui ho opinioni che non condivido.
Da una parte due minuti sono televisivamente interminabili, e un evidente tentativo d’uccidere di noia il pubblico, e un segno di disperazione che mi straziava il cuore: guardalo, pulcino, che s’aggrappa al suo intervento come Leonardo DiCaprio alla zattera del Titanic, illuso sia risolutivo, illuso che cambi qualcosa, illuso di dire cose dirimenti.
Dall’altra due minuti (ma pure due ore) non bastano a risolvere una guerra, ma neppure una pandemia, ma neppure a spiegare un qualsivoglia romanzo figuriamoci nazione figuriamoci equilibrio internazionale. A un certo punto ho pensato di dire: ci sono delle bellissime pagine di Nabokov sul fatto che non ci si può illudere d’aver capito la Russia avendo letto “Anime morte” di Gogol’, e noi ci illudiamo d’aver capito la Russia perché abbiamo visto due video su TikTok; ma poi ho pensato che sarei sembrata la solita stronza che cita gli Adelphi per darsi un tono.
Guardavo di soppiatto l’orologio, mentre nello studio con cui ero collegata risolvevano i problemi del mondo, e pensavo alla scrittrice che cito all’inizio dell’“Economia del sé”, quella che quando ero io la conduttrice e lei quella con un libro da vendere disse «Il libro si può anche citare, non è un prosciutto».
Pensavo: mancano dieci minuti alla fine e nessuno ha ancora citato il mio prosciutto, cosa son venuta a fare, ho già un sonno da morire. Pensavo: sai che c’è, quando a un minuto dalla fine lo citeranno, io dirò, come Laura Morante in “Turné”, «io la cultura in trenta secondi non ce la faccio». Poi non l’ho fatto, perché sono una vile. Nel frattempo Andrea si collegava col programma successivo, dove annunciavano come ospite Conte (il già segnaposto, non l’ancora cantante), e io pensavo ma quasi quasi quando finiamo non spengo, ma quasi quasi è il giorno in cui recupero tutta la tv che non ho visto negli ultimi anni.
Guardavo Conte e pensavo che è tutto prosciutto, tutto «io», tutti piazzisti del sé: «Sono stato il primo a dire che Biden ha fatto benissimo», diceva quello, e io pensavo a quando prendevamo in giro Baudo che diceva di tutte «L’ho scoperta io», e ora siamo tutti Baudo, e neppure ce ne accorgiamo.
Sono stata bambina nel Novecento: ci dicevano di stare attenti a quelli che volevano venderci la droga fuori da scuola. Mentre l’intervistatrice di Conte continuava a ripetere «eterogenesi dei fini», pensavo che siamo privi di strumenti: nessuno ci ha avvisati per tempo di stare attenti non solo al commercio di stupefacenti ma anche ai gorghi della programmazione televisiva. Sbadigli sopra un cappuccino, paghi il conto al tuo destino, ed è un attimo accendere per vendere il tuo salume e ritrovarti cliente dello spaccio d’opinioni.