Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 14 Giovedì calendario

L’homo bonsai è esistito davvero


Prima scimmie, poi uomini, ma uomini al plurale: Homo sapiens, Neanderthal e dal 2003 (quando fu dissotterrato nell’isola di Flores, in Indonesia) Homo floresiensis. Quest’ultimo è un homo bizzarro, di quelli che si possono incontrare nei Viaggi di Gulliver o in certe storie di Flash Gordon e di Paperino: alto all’incirca un metro, con grandi occhi, l’Homo floresiensis aveva il cervello due terzi più piccolo del nostro ma era sveglio abbastanza da costruire zattere, minimo 50 mila anni fa, quanti ne contano i referti ossei più antichi, per viaggiare tra le isole e trovarsi un posto al sole in quella che forse era già allora una località di villeggiatura.

Strano l’homo, e strana l’isola, dove insieme ai resti di quel nostro cugino sono stati ritrovati anche resti di cicogne alte tre metri, d’elefanti nani (zanne, orecchie a sventola e tutto, ma poco più grandi d’un San Bernardo) e di topi kolossal, tipo il «ratto gigante di Sumatra» col quale s’è scontrato Sherlock Holmes. Frank Westerman, che racconta tutta la storia in uno dei suoi eccezionali reportage, Noi, umani, fresco di stampa e caldamente consigliato, spiega che un’evoluzione che restringe oppure ingigantisce le specie è tipica delle isole, dove non ci sono nemici naturali né altre ragioni di stress (apposta vai a vivere al mare) e così puoi evolverti in maniera più rilassata che nelle giungle e savane preistoriche, affollate e tentacolari.
Ma l’Homo floresiensis non è un sapiens mignon, l’equivalente d’un elefante nano: è un umano a parte, come il Neanderthal, o così pensano i suoi dissotterratori (che i colleghi invidiosi, all’inizio, accusano d’aver trovato lo scheletro d’un «nano», o d’un «bambino», e anzi dello «scemo del villaggio»: un fenomeno da baraccone antidiluviano che gli scavatori non hanno saputo riconoscere come tale). Alla fine, però, si sono rassegnati tutti: l’homo bonsai è entrato nel club di «noi, umani» accanto a sapiens e Neanderthal, l’élite dei primati. Purtroppo è un onore postumo: isola vulcanica, Flores è stata devastata 12 mila anni fa da un’eruzione finimondo che ha fatto piazza pulita di tutto.

Sepolto dalle ceneri, questo nostro «bro», come dicono i ragazzini, è stato riportato alla luce e ha vinto la sua battaglia contro chi lo tacciava di «scherzo di natura». Bene così. Almeno finché dura. Perché non è mai tutto così chiaro né così pacifico. In paleontologia, racconta Westerman, non si è mai sicuri di niente: i colpi di scena, i contrordini, le brusche accelerate e frenate sono all’ordine del giorno, vai a dormire che sei un «anello di congiunzione» tra l’homo e la scimmia, o un antenato diretto dell’umanità, o anche solo un ramo laterale, e ti svegli che non lo sei più, e chissà cos’altro sei.
Ossa e teschi dissepolti sono il «gratta e vinci» della filogenesi umana. Alcuni di questi resti pietosi assurgono al rango di pop star: il Bambino di Taung, l’Uomo di Giava, e soprattutto Lucy, età 2 milioni e 300 mila anni, l’Australopitheca afarensis ritrovata in Etiopia nel 1974 (ha preso il nome da una canzone dei Beatles, Lucy in the Sky with the Diamonds). Da pochi indizi, qua un molare, là un teschio scheggiato, una tibia, una mandibola, il paleontologo ricostruisce ogni volta daccapo l’albero genealogico dell’homo. Non è mai lo stesso albero, e anche l’homo cambia: ogni scheletro e referto ha la sua storia da raccontare, e se non tutte queste storie sono vere, e anzi quasi certamente nessuna lo è, sono comunque storie affascinanti. Anche la cornice in cui queste storie prendono forma è affascinante: le avventure dei paleontologi, le loro personalità, le guerre scientifiche, gli sgambetti reciproci, le loro ascese e cadute.

Già autore d’una storia del realismo socialista, Ingegneri d’anime, Iperborea 2020, come pure una storia della violenza verbale, I soldati delle parole, Iperborea 2017, Westerman racconta la storia della paleontologia, che si prefigge di rischiarare il nostro passato di specie, con la stessa passione e lo stesso disincanto. In particolare, naturalmente, questa è la storia di Flores e del missionario olandese Theodor Verhoeven che per primo, intorno alla metà dello scorso secolo, scoprì i resti degli animali fuori scala dell’isola, ma non scavò abbastanza a fondo e così, mezzo secolo più tardi, un paleontologo affondò la pala nella stessa buca praticata da Verhoeven decenni prima e scoprì, tre metri più sotto, il teschio dell’Homo floresiensis. Figura tragica, abusato da bambino in seminario, pieno di pietà per se stesso e tuttavia indifferente alla sorte dei «comunisti» dell’isola assassinati a migliaia nelle maniere più efferate dal regime del dittatore Sukarno, Theo Verhoven si spretò, sposò un’ex suora e trascorse gli ultimi anni (morì a 83 anni nel 1990) masticando amaro per aver lasciato il suo lavoro a metà.

Ci sono altri personaggi, altre storie, e la stessa storia del libro (Wasserman, gli studenti del suo seminario, i viaggi a Flores, le interviste) è a suo modo un referto: parte della filogenesi umana. Wasserman, per esempio, è sapiens abbastanza (e così buona parte di «noi, umani», purtroppo non tutti) da chiedersi che senso ha concentrarsi sul teschio dell’Homo floresiensis quando migliaia di scheletri senza pace d’oppositori di Sukarno sono stati seppelliti nei campi di Flores. Essere «umani» non è soltanto camminare eretti, vantare un pollice opponibile, cuocere il cibo, scrivere Amleto e la Divina Commedia, ispirarsi ai Beatles per battezzare gli ominidi, ma anche tenere l’occhio sulla palla. Soprattutto, però, è riconoscere la debolezza, umana e troppo umana, delle nostre argomentazioni, a partire dal racconto delle origini.
Siamo animali, e nulla ci distingue dalle altre specie, come sostengono i paleontologi radicali applicando alla scienza le superstizioni relativistiche e politically correct, o non siamo piuttosto l’unica specie che costruisce piramidi, compone la Quinta sinfonia, viaggia fino alla Luna – e questi sarnno pure segni di distinzione? Nei sixties, epoca di pacifismi e di sfide al sistema, salta fuori la teoria della «scimmia assassina», di cui saremmo (come dimostra la guerra del Vietnam) gli scellerati eredi. Poi questa teoria finisce dove finiscono tutte le teorie infondate: nel robivecchiato, tra le dottrine vintage. Ma anche oggi le fantasie sulle origini dell’homo continuano a impicciarsi di Weltanschauung e a rendersi simpatiche all’ideologia dominante enunciando teorie e correggendole.
«Ma che razza di scienza è mai questa?» si chiede Wesserman. «Simili “correzioni” sono realmente la conseguenza di nuove conoscenze acquisite dagli studiosi o solo una diversa sceneggiatura che meglio rispecchia lo spirito del tempo? Anche la cultura popolare ha contribuito alla progressiva riscrittura del copione. Nel giro di cinquant’anni, gli sceneggiatori dell’ultimo Pianeta delle scimmie hanno fatto evolvere i loro pelosi protagonisti da “maniaci” (nel 1968) alle più nobili di tutte le creature (nel 2017)».
Frank Westerman, Noi, umani, Iperborea 2022, pp. 338, 18,50 euro, eBook 9,99 euro