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 2022  aprile 14 Giovedì calendario

SERGIO MATTARELLA VICINO AL CADAVERE DEL FRATELLO PIERSANTI, FALCONE CON LA PISTOLA IN MANO, I VISI E I CORPI TRUCIDATI DI PALLOTTOLE DEI QUARTIERI DI PALERMO: SE NE VA A 87 ANNI, PER UN CANCRO, LA GRANDE FOTOGRAFA LETIZIA BATTAGLIA, CHE RACCONTO' LA LOTTA ALLA MAFIA - L'ULTIMA INTERVISTA A ANTONIO GNOLI PER "ROBINSON" - “VOLEVANO DARMI LA SCORTA, NON L’HO VOLUTA. SE TI VOGLIONO AMMAZZARE LO FANNO LO STESSO” – I PRIMI ANNI DA SPOSATA CON UN UOMO FACOLTOSO (“PIÙ MI RIEMPIVA DI REGALI COSTOSI E PIÙ IO SBROCCAVO”), IL PRIMO SCATTO A UNA PROSTITUTA PER "L'ORA", IL RAPPORTO VISCERALE CON PALERMO (“MI PIACE COSÌ SLABBRATA, DECADENTE, POVERA”), IL CALCIO DURANTE LA FOTO A BAGARELLA E I...

E' morta Letizia Battaglia, fotografa, testimone e narratrice con la sua macchina fotografica per decenni di fatti di cronaca e di mafia. Aveva 87 anni. Era malata da tempo ma nessuno credeva che avrebbe ceduto al tempo e agli acciacchi. È morta nella tarda serata di oggi. Irriverente, iconica, volutamente divisiva Letizia Battaglia ha lasciato il suo segno nella storia della fotografia, ma soprattutto di Palermo.

La sua città, che ha voluto raccontare e interpretare, soprattutto attraverso la narrazione delle sue donne. È divenuta nota come fotografa di mafia: la reporter che è riuscita a strappare i primi piani ai boss e rendere iconici gli arresti. Ma è la Palermo che scorreva attorno, i volti dei quartieri, gli occhi neri della ragazza con il pallone sotto il braccio che hanno mostrato più profondamente la città di quegli anni.

Ogni scatto una storia da raccontare, un retroscena, una sorpresa. Le foto di Letizia Battaglia, scomparsa oggi all'età di 87 anni, sono state tutto questo. Hanno aperto una nuova via alla narrazione per immagini. Aveva iniziato tardi la carriera, era già quarantenne. Ma le foto in realtà erano solo lo strumento tecnico per raccontare il mondo che si palesava davanti ai suoi occhi e che lei era in grado di restituire fino all'essenza quando veniva fuori dalla camera oscura.

Morta Letizia Battaglia, tutto cominciò al L'Ora Aveva iniziato la sua carriera nel 1969 al giornale L'Ora di Palermo. Poi a Milano, assieme al fotografo Franco Zecchin, ha creato un'agenzia di Informazione fotografica che documentò i grandi fatti di cronaca del periodo. Fu lei a fotografare per prima la scena del delitto di Piersanti Mattarella, ucciso dalla mafia il 6 gennaio del 1980, in via Libertà a Palermo davanti all'abitazione del presidente della Regione siciliana. In quella foto un giovane Sergio Mattarella prova a estrarre dalla vettura il fratello.



Morta Letizia Battaglia, le lacrime del sindaco Orlando Piange il sindaco Leoluca Orlando, che ricorda il terrore che avevano tutti quando entrava in giunta: "Le sue proposte erano sempre al limite della legge, sempre volte ad aiutare qualcuno ai margini. Letizia è stata una persona straordinaria che ha reso visibile quello che era invisibile". Assessora al Verde nelle giunte Orlando pentacolore ed esacolore, dal 1987 al 1990. Battaglia ha realizzato il palmeto del Foro Italico e ha rimosso le bancarelle dal lungomare di Mondello, restituendo la vista della battigia e del porticciolo. Poi deputata regionale della Rete dal 1991 al 1996.



Ma la sua vera cifra, la sua anima, è stata quella di cantrice di una Palermo irredimibile: la Palermo del sangue e della morte, delle donne costrette a un destino imposto, che non avevano scelto. Battaglia diventa fotografa a quarant'anni, reinventandosi una vita. Con la macchina fotografica si presenta al giornale L'Ora e scrive la storia del fotogiornalismo italiano. Carismatica, riesce sempre a dividere, come recentemente con la pubblicità Lamborghini: dure le polemiche scatenate per le "sue" bambine ritratte davanti alle auto in piazza Pretoria.

Morta Letizia Battaglia, la sua lotta per il riscatto delle donne Ma a lei non importava delle polemiche. Quelle bambine e adolescenti, ritratte indifferenti al lusso, erano il racconto di una città che al netto delle lusinghe non si fa comprare. Così spiegava Letizia, arrabbiata per quelle polemiche che riteneva pretestuose. Perché alla "mia Palermo" - e quel possessivo lo premetteva sempre - aveva consacrato il racconto e l'arte del raccontare. Ed era con vivo entusiasmo che parlava delle donne che accoglieva e guidava nei workshop di fotografia al Centro sperimentale della città. Inesperte, troppo nuove al mezzo per avere una propria cifra narrativa, ma con la voglia e la rabbia che a lei piaceva. "Lo faccio gratis, lo faccio per la città", ha rivendicato fino all'ultimo, con l'orgoglio di chi ha scritto un capitolo nella storia della sua terra e della sua arte a dispetto di chi non ci credeva.



"Quando ho iniziato, nessuno mi considerava", diceva solo qualche mese fa "ma le mie fotografie rimangono, quelle di altri no". L'ultima mostra a Lubjana, con decine di scatti. "Vivo del mio lavoro", rivendicava orgogliosa. Della sua vita, del suo percorso, delle sue contraddizioni. Felice ha festeggiato l'anniversario di casa Stagnitta, proprio a ridosso del suo ultimo compleanno, rimandando ogni impegno pur di esserci. "Perché a Letizia piaceva la vita - dice chi la conosceva - e per questo sapeva catturarla con i suoi scatti". Fino alla fine.



"È stata lucida e attiva fino alla fine". Gli ultimi momenti di vita di Letizia Battaglia sono ricordati così dalla figlia Patrizia Stagnitta. "Mia madre - dice - non si fermava mai. Malgrado le sofferenze della malattia e le difficoltà di movimento continuava ad avere tanti contatti, a partecipare a incontri anche all'estero e ad affrontare perfino lunghi viaggi. Proprio la settimana scorsa era andata a Orvieto per partecipare a un workshop. La grande voglia di vivere non le era mai passata".



Negli ultimi tempi, ricorda ancora Patrizia Stagnitta, era costretta a usare la sedia a rotelle. "Ma questo - aggiunge subito - non le impediva di prendere un aereo e rispondere alle tante chiamate e ai tanti inviti che continuava a ricevere". Fino a questa mattina Letizia Battaglia era lucida e presente. Poi c'è stato un improvviso peggioramento delle condizioni. "È accaduto tutto all'improvviso tanto che - conclude la figlia - non ci ha dato il tempo di capire che se ne stava andando".

LETIZIA BATTAGLIA Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica”

Le fotografie di Letizia Battaglia provocano su di me un effetto malinconico. È lo stesso sentimento che avverto davanti a un film neorealista di Rossellini o De Sica. Ho visitato recentemente una sua piccola mostra alla galleria "Il Cembalo" di Roma.

Foto che parlano di bambine, di morti violente, di donne ai margini, di bassi. Tutto mi appare crudo e intenso. Come se Letizia, con il suo occhio sovrano, metta in gioco le sue ferite e i suoi tormenti. Anche adesso, che mi parla per telefono, la sua voce si riveste di una strana malinconia.

E mi pare di vederla in quella Palermo che è tutta la sua vita. È una grande donna ma, come tutti vive, i suoi inciampi: le angosce improvvise, le insonnie che da qualche tempo infuriano nella sua testa e le impediscono di sognare. Sta lottando contro un cancro che la spossa. Ma lei non demorde. Grinta e indignazione la spingono oltre.

Oltre cosa? Oltre i molti luoghi comuni che ha ribaltato: sulla mafia, sulle donne, sugli uomini, sulla Sicilia e in particolare su quella Palermo da cui non può prescindere: «L'amo al punto che se dovesse sparire la piangerei come la più cara delle persone perdute». Mi dice con accorata convinzione.

Hai accettato di parlarmi nonostante tu non stia bene. Posso chiederti cosa stavi facendo? «Ma che domanda strana. Pensavi fossi a letto. Sono spesso a letto. Ma prima di parlarti stavo guardando le foto che ho scattato e che scelgo per aggiungerle al mio archivio».

Come le scegli?   «Non me ne frega più di tanto se sono belle, brutte, carine o modeste. Non è questo il criterio. Voglio lasciare delle foto che raccontino di me, non di Gina Lollobrigida o di Leoluca Bagarella. Perché puoi fotografare le mafie o gli artisti di tutto il mondo, ma alla fine è il mio mondo che accoglie e fissa gli altri mondi».

Si chiama empatia. «È quella che provo un attimo prima di scattare. Mi innamoro non del mio sguardo ma di ciò che il mio sguardo in quel momento accoglie».

Ma puoi innamorarti del male? Molte tue foto parlano di miseria, di morti violente, di soprusi. «Non mi potrei mai innamorare del male. Quando ho fotografato Bagarella ricevetti un calcio. Un messaggio di disprezzo e violenza. Tu, donna, come ti permetti, sembrava volermi dire. Ma le mie foto non esaltano il male, lo raccontano attraverso la bellezza.

Per me la disperazione è bellezza, la sconfitta è bellezza, la cattiva sorte è bellezza. Sono andata avanti tutta la vita con questi strumenti del cuore e della mente. Quando fotografo non faccio progetti. Non faccio estetica come Mappletorphe o Salgado. Seguo il mio cuore e la mia testa».

Ma hai dei fotografi ai quali ti senti più legata? «Certo. Il più vicino di tutti è Josef Koudelka. Fu lui a cercarmi la prima volta. Veniva a Palermo, sapeva del mio lavoro ed era curioso di conoscermi. Diventammo subito amici. E quando era a Palermo veniva ospite da me. La sua presenza era una festa.

Era emozionante vederlo fotografare. Stava fermo per dei minuti e poi scattava. Il suo segreto era la capacità di annullare il tempo fisico. Vederlo lavorare mi è servito tantissimo. Poteva perfino far passare un anno prima di sviluppare i suoi rullini. Gli chiesi perché impiegasse tutto questo tempo.

Mi rispose che quello era il tempo giusto per distaccarsi dall'emozione. E io ridendo gli dissi: Josef, mi sa tanto che io la vita l'afferro e tu la controlli. È stato un maestro, ma come tutti i grandi maestri, del tutto involontario. Non c'era in lui nessuna pretesa di volerti insegnare il mestiere.

Lo dici come se le scuole siano inutili. «Sono autodidatta. Ho imparato a fotografare di istinto e perché a un certo punto ho pensato che la fotografia fosse una lingua con cui potevo comunicare. Ma ho cominciato tardi, avevo quasi quarant' anni».

Prima che facevi? «La donna di casa, la madre di famiglia, la moglie sottomessa. Mi sono sposata che avevo sedici anni. La classica fuga e poi le nozze riparatrici. La prima figlia a diciassette anni. Amavo il mio uomo. Ero giovane e avevo perso la testa per lui».

Lui chi? «Un uomo facoltoso, produceva e commerciava caffè. Forse pensava che io fossi come quei sacchi di juta che conservava gelosamente nei suoi magazzini. Insomma un oggetto che allietasse il suo ambiente.

A un certo punto scattò in me una vera insofferenza. Più provava a riempirmi di regali costosi e più io sbroccavo. Stavo male al punto che decisi un bel giorno di partire per Mestre con le tre figlie. Raggiungevo i miei. Papà era un marittimo e si spostava nei vari porti italiani. Poi ci fu la ricomposizione e di nuovo le sue ossessioni. Volevo studiare, frequentare gente interessante. Alla fine mi ammalai di brutto. Soffrivo di crisi di panico e di depressione. Mescolavo whisky e valium. Stavo letteralmente a pezzi».

A quel punto cosa accadde? «I medici decretarono che avevo un esaurimento nervoso. Mi spedirono in una clinica Svizzera per una cura del sonno. Dormii di filata per quattordici giorni! Poi suggerirono una clinica palermitana dove curare, dicevano, i miei nervi. Mi rifiutai e la fortuna ha voluto che incontrassi una persona strepitosa: Francesco Corrao, uno psicoanalista freudiano che mi tenne in analisi per tre anni».

E tutti questi ribaltamenti come ti hanno condotto alle fotografia? «Se avessi potuto avrei fatto la scrittrice».  

Scusa cosa te lo ha impedito? «Scrivere richiede un esercizio e una disciplina che non mi potevo permettere. La fotografia, no. La fotografia è impulso, decisione e immaginazione. Ti ho detto che ho iniziato tardi. Mi presentai all'Ora di Palermo, era l'estate del 1969. Per questo glorioso giornale feci la prima foto».

Il soggetto qual era? «Fotografai una prostituta di Palermo. Una donna bellissima, per niente sfregiata dalla vita che faceva. Ma a sfregiarla fu altro. Era stata coinvolta nell'omicidio di un'altra prostituta. Di qui il valore di cronaca che la sua immagine aveva per il giornale. Ho lavorato duramente per alcuni anni.

Poi complice una persona che mi stava a cuore mi sono trasferita a Milano. È stata una città importante per me. Per le persone che vi ho conosciuto, per il lavoro svolto. E poi perché per la prima volta mi sono sentita libera, una donna senza più costrizioni».

Il che non ti ha impedito di tornare a Palermo. «Ho provato varie volte ad andarmene definitivamente da quella città. Ma ogni volta che, per qualche ragione, fuggivo c'era una ragione più forte che mi diceva di tornare».

Che cos' è che ti lega esattamente a Palermo? «Non lo so, non lo so davvero. Non mi sono mancate le occasioni per decidere di andare a vivere a Londra, Parigi o New York. Ma alla fine io sono me stessa solo riconoscendomi negli odori, nei gesti, nelle voci, negli angoli della mia città. Mi piace così slabbrata, decadente, povera. Non ne faccio l'elogio da snob, perché è un pensiero e un atteggiamento che non mi appartengono. È che sono gelosa della mia città, morbosamente attaccata e non so spiegarmelo se non epidermicamente».

Non ti sembra che vada posto un limite alla sua caduta? «È stato fatto, a volte con risultati interessanti. Penso che il futuro di una città, di un paese sia nelle mani di chi li vive, di chi vi soffre e di chi vi gioisce. Occorre l'impegno e io penso di essermi impegnata. Ho cercato di restituire quello che la città mi aveva dato».

Lo hai fatto in tanti modi. Ma quello che più ti corrisponde è la fotografia. Penso al tuo lavoro sulla mafia. «Sì, ma non devi pensare a qualcosa di neutro, di semplicemente documentale. Ho avuto un anno particolarmente orribile, il 1992. Fu una sequenza di morti. Dagli amici più cari alle persone di riferimento come mia madre e Corrao che mi aveva tenuto in cura come fosse un padre.

Si era anche chiusa una storia d'amore per me importante. E in quell'anno ci fu la morte di Falcone e Borsellino. Ero talmente infelice che volevo isolarmi da tutto e tutti. Scelsi di andare in Groenlandia. Volevo un deserto di ghiaccio e di freddo. Arrivai a Copenaghen. Ero sfinita, dormii in terra all'aeroporto e la mattina seguente partii per una cittadina di cui non ricordo il nome. Sbarcai. Mi sembrava una di quei non luoghi, nei quali ogni cosa ti è indifferente».

E cosa facesti? «Andai a mangiare. Il freddo, il fatto che erano due giorni che praticamente non toccavo cibo mi spinsero verso un locale con delle insegne, su una c'era scritto "Pizza". Entrai e, quando mi portarono la lista dei cibi, non ci potevo credere. Tra le varie versioni di pizza c'era "pizza mafia"! Io volevo dimenticare e allontanarmi dallo schifo e lì per puro luogo comune associavano la pizza italiana a un fenomeno criminale».

Tu la mafia l'hai combattuta con i tuoi mezzi. E la mafia come ha reagito? «A un certo punto mi volevano dare la scorta. Ma non l'ho voluta. Ho pensato se ti vogliono ammazzare lo fanno. Tanto vale non coinvolgere gli altri. Ho sofferto per coloro che sono morti per mano mafiosa, da Boris Giuliano ai tanti che hanno disseminato di sangue la mia terra.

Ho pianto, ho imprecato e ho documentato le carneficine e gli omicidi. A volte penso alla mia infanzia e al fatto che la mafia non c'era, ma c'era la guerra e c'erano le bombe. Come oggi in Ucraina. Noi, intendo la mia famiglia e io, eravamo a Trieste. Ma non ci volevano e siamo tornati nel 1945 a Palermo, su un carro bestiame. Non ho avuto una vita semplice».

La tua vita è stata per certi versi incredibile. «Lo so, ma solo in parte è dipeso da me. Se fossi nata a Bergamo o nella provincia del Nord molto probabilmente non sarei stata la persona che sono diventata. Siamo il risultato della casualità e del desiderio di trovare il nostro sé. Mi è sempre piaciuta la cultura. Ho letto tanto anche per curiosità e per non sentirmi spiazzata. Ho conosciuto Pound a Venezia, ho letto l'Ulisse di Joyce, ho fotografato Pasolini. Ho avuto dei maestri che ho chiamati "invisibili"».

Perché? «Non sapevano di esserlo, non sapevano tutto quello che mi stavano dando. Ora lasciami in pace, non ho più fiato. Ho diminuito le sigarette, prima ne fumavo sessanta, ma non basta. Devo scendere di più, devo smettere. Faccio fatica a respirare. Sono stata spregiudicata, provocatoria, ma vera.

E ho sempre saputo che la gente mi perdonava tutto. Vorrei che le ragazze che mi cercano non amassero solo la fotografia, ma quello che c'è dietro. Ora quando esco mi spingono con una carrozzella. Ma la cosa che mi fa piacere è che la gente vede me e non la protesi su cui siedo. Ho un cancro e certe notti sento che il mio subconscio si ribella. Ho paura e accendo le candele e provo a dormire.

Riesco a farlo per due ore. I sonniferi non mi fanno niente. E allora mi è difficile recuperare le forze nella giornata. Devo vigilare sulle mie paure, sulla mia insonnia. Lo so è difficile per una vecchia di 87 anni. Ma se penso a quello che ho fatto, ecco improvvisamente sento che la mia vita è valsa la pena di viverla»