il Giornale, 14 aprile 2022
Ritratto di Rodolfo d’Asburgo
Se Rodolfo II d’Asburgo (1552-1612) fu il padrino della Praga magica, Auguste Hauschner (1850-1924) ne fu la madrina. Lo fu anche se a distanza di tre secoli e anche se, mentre il sovrano, nato a Vienna, Praga la scelse come nuova capitale del suo impero, la scrittrice, nata a Praga, dopo il matrimonio con Benno Hauschner la lasciò per trasferirsi a Berlino, tuttavia conservandone e coltivandone per sempre la memoria di centro culturale multietnico e multiforme. È difficile immaginare un uomo e una donna più lontani per carattere e per formazione: lui cattolico e lei ebrea; lui immerso nelle varie declinazioni del Mistero, fra alchimia, occultismo, stregoneria e astrologia, e lei saldamente ancorata alla Realtà della classe borghese cui apparteneva e in cui, fra le prime in Europa, mise a tema le rivendicazioni femminili; lui che rinnovò lo spirito delle Crociate promuovendo la Lunga Guerra contro i turchi, e lei convintamente pacifista alla vigilia del primo conflitto mondiale.
Naturalmente di Rodolfo II sappiamo tutto, a parte i fantasmi a lui più cari che probabilmente ancora popolano il castello praghese di Hradcany, da cui raramente usciva. Invece, di Auguste Hauschner sappiamo poco. Neppure la più alta autorità italiana in tema di letteratura boema, Angelo Maria Ripellino, la cita nel suo bellissimo Praga magica (1973). Tuttavia «anche al miglior Linneo può ben sfuggire un fiore», commenta Thomas Höhne, traduttore e curatore di La morte del leone (Castelvecchi, pagg. 107, euro 15), a tutt’oggi l’unico libro di Auguste Hauschner, datato 1916, uscito da pochi giorni nella nostra lingua. Fu Max Brod, spiega Höhne nella prefazione, a collocare il nome dell’autrice «tra gli autori tedesco-boemi appartenenti alle generazioni precedenti il più ristretto circolo di Praga, in cui egli stesso si incluse insieme a Kafka, Baum e Weltsch, conferendole così il ruolo di ideale madrina delle lettere ebraico-praghesi».
Incline, da donna emancipata, a prendersi delle libertà, Auguste se le prese anche in questo tranche de vie proprio di Rodolfo II d’Asburgo e relativo all’inverno del 1611, poco prima della sua scomparsa. Ad esempio, nel romanzo figurano due personaggi che ebbero sì rapporti con l’imperatore, il rabbino Löw e l’astronomo danese Tycho Brahe, ma che all’epoca dei fatti erano già morti.
Siamo in pieno scontro fratricida: Rodolfo è agli arresti domiciliari per volere del fratello Mattia, re d’Ungheria, e ha chiesto aiuto al cugino Leopoldo, vescovo di Passavia, le cui truppe, con intenti tutt’altro che amichevoli, premono già alle porte di Praga. Fra incubi premonitori, dubbi sulla fedeltà della sua ristretta cerchia e il cattivo presagio portato dal passaggio di una cometa (quella di Halley si palesò, ma quattro anni prima...), Rodolfo, scambiati i vestiti con un paggio e confidando, come extrema ratio, nell’aiuto della sapienza ebraica, s’avventura nel ghetto.
E qui entra in scena l’animo femminile dell’autrice, la quale appioppa al sovrano un colpo di fulmine. È la quindicenne figlia del rabbino Löw a far breccia in quel cuore malato e solitario, e sembra aprirgli le porte di una nuova dimensione. «Colui che aspira all’appagamento mistico – scrive l’autrice introducendo lo slancio erotico-spirituale di Rodolfo – deve agire come se corteggiasse una donna bella e difficile; nascosta nelle sue stanze, ella rifiuta il suo volto al pretendente; soltanto dietro spessi veli, ritrosa, gli concede un segno; unicamente quando da ultimo si concede, egli la vede alfine nuda. Come in uno specchio gli si rivela l’incanto dei suoi simboli più riposti; sprofondato in un mare di ardente beatitudine, egli si congiunge a Dio, ricevendo il Suo bacio. Sì, come l’uomo la donna, così l’Eterno conosce colui che è senza macchia. Egli fa scorrere il Suo seme nello spirito umano, con lui ricreando nuovamente l’universo». Parole alate che restano però sulla carta. Perché se il saggio padre, capita l’antifona, temporeggia, un giovane ed erculeo domestico (che sia il Golem in persona, la creatura plasmata dal rabbino?), al colmo di una scena di gelosia alza le mani sull’ingombrante e indesiderato ospite. Ne segue un’ingloriosa fuga, accompagnata dai lazzi della folla.
Con la coda fra le gambe e i nuovi nemici all’uscio, Rodolfo si rifugia fra le mura amiche. Gli resta un solo conforto, la compagnia di Mehmet Ali, il leone berbero fiore all’occhiello del suo esotico zoo. Ma anche per il vecchio felino (che compare sullo stemma della Boemia), simbolo di forza ormai allo stremo, giunge la fine. Quando Rodolfo gli apre le porte della gabbia, l’animale muore varcandone la soglia. Troppo tardiva, la libertà diventa per lui condanna. Da condividere con il suo padrone.