Dagoreport, 13 aprile 2022
1. DAGOREPORT - ASCESA E CADUTA DI MARIO DRAGHI: L'OSANNATO SUPERMARIO NON C'E' PIU' 2. LA FALLACE AMBIZIONE QUIRINALIZIA, GLI OSTACOLI ALZATI DAI PARTITI, RISENTITI DAL SUO DISPREZZO SNOB, LE GAFFE, GLI SCIVOLONI HANNO INTACCATO L’ALLURE DA RE TAUMATURGO 3. SI E' INCRINATO IL RAPPORTO CON MATTARELLA, HA PERSO SMALTO IN EUROPA DA QUANDO HA CALZATO L'ELMETTO DEL TURBO-ATLANTISTA APPESO AI RAZZI DI JOE BIDEN E SI TROVA IN DIFFICOLTA’ TRA GEOPOLITICA, ARMAMENTI E DIFESA, SU CUI SA POCO O NULLA - A MARZO DEL 2023 DIRA' ADDIO ALLA POLITICAGLIA ITALIANA E CHISSA' CHE QUALCUNO A WASHINGTON...
Mario Draghi oggi non è più il SuperMario osannato ieri. Qualcosa è cambiato. L'ambizione quirinalizia, gli ostacoli nella maggioranza, gli imprevisti, le gaffe, gli scivoloni hanno intaccato l’allure da re taumaturgo che, alla guida del “governo dei migliori”, avrebbe sanato l’Italia con il benefico balsamo tecnocratico.
Ormai politologi, giornalisti e persino i friggitori di baccalà concordano: senza la guerra in Ucraina, e le nuove emergenza che ha imposto, il governo Draghi sarebbe già stato accompagnato alla porta.
La ruggine del flop quirinalizio ha aggredito anche il rapporto, un tempo solidissimo, tra Draghi e Mattarella. Vero è che il presidente della Repubblica non avrebbe dovuto, quando affidò la guida del governo a Draghi, fargli annusare la successione al Quirinale come un naturale passaggio di testimone. Della serie: ora vai a palazzo Chigi, domani sarai al mio posto.
Allo stesso modo, l’ex Bce ha visto dietro alla rielezione al Colle una spiacevole sceneggiata di Mattarella. Una inutile ammuina fatta di tanti e continui “grazie, preferisco di no”, con l’esibita voglia di andare in pensione, conclusa con un mandato-bis accolto con un entusiasmo fin troppo sospetto. Tra un’incomprensione e l’altra, il feeling si è incrinato. Ora i due convivono, nel rispetto dei ruoli e delle istituzioni, ma con la reciproca voglia di voltare pagina.
Il fu SuperMario ha scalato marcia anche in Europa. A Bruxelles sognavano di affidargli la patria potestà dell’Unione orfana di Angelona Merkel: era lui il babbo designato a tenere le redini politiche della baracca, dopo averne gestito i conti per sette anni dal timone della Bce. Poco a poco, Draghi ha mutato pelle. E maschera.
L’abito da turbo-europeista, proprio quando il bisogno dell’UE è diventato incalzante (cioè con lo scoppio della guerra in Ucraina), ha lasciato il posto a una divisa a stelle e strisce. Mariopio s’è offerto a Biden come iper-Amerikano (con la kappa). Né Macron né Scholz né gli altri leader europei hanno assunto posizioni così schiacciate sulla linea di Washington. Anzi, hanno provato (inutilmente) a definire una posizione europea tra i blocchi contrapposti.
D’altronde il curriculum di Draghi parla yankee: Mit di Boston con Giavazzi compagno di stanza, dal 1998 è nel Board of Trustees dell'Institute for Advanced Study (Università di Princeton) e, dal 2003, della Brookings Institution. È stato visiting fellow all'Institute of Politics della John F. Kennedy School of Government (Università di Harvard) nel 2001. Senza dimenticare il lavoro come Vice Chairman e Managing Director di Goldman Sachs. Gli Stati Uniti li ha dentro, ben interiorizzati.
Inoltre la congiuntura storica non lo favorisce. Finché c’era da scrivere il Pnrr, trattare con Bruxelles sul debito o gestire la pandemia, attraverso il supporto di Cts e generali, Draghi si è trovato a suo agio. Ha agito con decisione e autorevolezza.
Ma il conflitto russo-ucraino ha imposto altre priorità. E Mariopio, che è un sapientone ma non un tuttologo, nulla mastica di geopolitica, diplomazie, armamenti, intelligence e Difesa. Da qui anche gli scivoloni su “Erdogan dittatore di cui si ha bisogno” e quella sull’Algeria scambiata per l’Argentina.
Al suo fianco, da ministro degli Esteri, si ritrova il flebile Di Maio che non è d’aiuto: è fin troppo accovacciato e remissivo. Sostanzialmente impreparato davanti a uno scenario internazionale così complesso, che andrebbe affrontato con un mix di esperienza, arguzia e senso critico. Fare diplomazia non è dire sempre sì all’alleato che ce l’ha grosso, il missile.
Luigino, che quando è andato in Algeria è apparso più come il portaborse di Descalzi che un ministro degli esteri, ha perso anche il suo storico e acuto consigliere, l’ambasciatore Sebastiano Cardi, andato in pensione. A farne le veci ora c’è il direttore generale Luca Sabbatucci.
Insomma, Draghi è scoglionato, deluso e insofferente per le rogne nella maggioranza, che tra il fisco e il catasto gli pestano i calli ogni due per tre, e non vede l’ora di togliere il disturbo. Dopo le elezioni del 2023 saluterà senza rimpianti palazzo Chigi e la politica italiana. Magari, se la guerra finisce, pure a ottobre di quest'anno (con i peones in mano il vitalizio). E chissà che a quel punto qualcuno i suoi amici di Washington non trovino per lui un impegno più stimolante. E pure meglio retribuito.