il Giornale, 13 aprile 2022
Il ritorno dei «porcheristi»
Un canzoniere oggi quasi dimenticato fu per decenni il bestseller in versi della letteratura italiana: Postuma di Olindo Guerrini.
Bibliotecario romagnolo avvezzo a indossare maschere truffaldine con pseudonimi d’occasione, in quella raccolta dal titolo funereo pubblicata nel 1877, Guerrini attribuì le sue liriche a un fantomatico cugino, morto prematuramente di tisi, tale Lorenzo Stecchetti. Lo sfortunato, immaginario poeta descriveva le proprie afflizioni di amante tradito, ora deprecando le infedeltà della donna ora ricambiandole pan per focaccia nel concedersi, tra una seduta alcoolica e l’altra, il diversivo del sesso mercenario con a una frotta di donne in vendita.
Fu uno scandalo di proporzioni inimmaginabili, che suscitò immediatamente un vespaio di polemiche e divise l’agone letterario in due fronti contrapposti: da una parte, la legione degli imitatori che inondarono le patrie lettere con raccolte, elzeviri e volumi scollacciati; dall’altra, le anime belle della pubblica moralità, gli idealisti indignati per il dilagare del malcostume, che aveva corrotto addirittura il Parnaso nazionale.
Sia pure con la cautela di chi non voleva intrupparsi in alcun schieramento, anche il giovanissimo Gabriele d’Annunzio simpatizzò per i primi e non si fece scrupolo di accogliere, tra i suoi primi versi, echi, temi e reminiscenze della lezione di Guerrini: forse venne proprio da lì la trovata con cui fece parlare di sé l’Italia quando, ancora collegiale, in occasione dell’uscita di una raccolta di poesie, fece girare la notizia falsa – della sua morte suscitando coccodrilli piangenti sui giornali.
Intanto Postuma imperversava, portando lo scompiglio nella paludata critica italiana, abituata ai patetismi tardo-romantici, alle fanciulle morigerate, allo stile educato e perciò disgustata dalle licenze della nuova moda. La tendenza poetica inaugurata da Guerrini aveva preso piede in un batter d’occhio specie tra quanti ritenevano che la poesia non dovesse più rincorrere ideali astratti e anacronistici, ma avesse il compito di raccontare la realtà, anche quella più ordinaria e squallida. La letteratura ha il compito di ritrarre la totalità delle esperienze e dei sentimenti umani, scrivevano: proprio come avevano fatto Dante e Boccaccio, inclini a dare conto sulla pagina anche delle sgradevoli brutture.
Per questo motivo, per designare la nuova corrente, gli avversari coniarono l’etichetta spregiativa di «verismo»: nulla a che vedere con il termine oggi codificato nella pratica scolastica, perché i poeti in questione avevano ben poco a che spartire con Verga e Capuana e con la loro neutrale, impassibile oggettività.
Avrebbero potuto essere designati come fautori del «carnalismo» o del «porcherismo»: così proposero i critici più disgustati, visto che tra i loro versi il lettore poteva sguazzare tra i miasmi della vita cittadina, i fetori delle stamberghe e le indecenze dei postriboli.
Felice Cavallotti, il famoso bardo della democrazia, rivoluzionario in politica ma conservatore in arte, indicò con indignazione le note onnipresenti di questo spartito: «letto, latrina e cantina». E sotto questo titolo Giuseppe Iannaccone, ripescando nei polverosi cataloghi editoriali del tempo, ripropone per la prima volta in una curiosa e divertente antologia (Letto, latrina e cantina. La poesia verista in Italia, Interlinea, pagg. 265, euro 18) i componimenti più significativi e gli autori protagonisti di questa esperienza (da Domenico Milelli a Enrico Onufrio, da Pier Enea Guarnerio a Ulisse Tanganelli), che si ritagliarono un quarto d’ora di celebrità spaziando tra le cortine delle alcove.
Oltre all’eros non mancavano, d’altro canto, neppure i tipici motivi della poesia sociale e protestataria, particolarmente fiorente negli anni postunitari. Sicché non sorprende, sfogliando il volume, di imbattersi in livorosi j’accuse anticlericali, in peana satanici e in battaglieri inni rivoluzionari, scagliati perlopiù ai danni dell’odiata borghesia.
Eredi dei bohémien di casa nostra, gli Scapigliati, i veristi si specializzarono tuttavia nell’esercizio della misoginia, che sparsero senza ritegno per offrire un controcanto provocatorio all’immagine della vergine onesta, della madre operosa e della moglie fedele. Sull’amante traditrice piovono così accuse e anatemi, da realizzare post mortem: «quando ti coleran marcie le gote / entro i denti malfermi / nelle occhiaie tue fetenti e vuote /brulicheranno i vermi», minaccia Guerrini nel Canto dell’odio, immaginando la sua vendetta postuma ai danni del povero cadavere spolpato nella tomba.
«Maledetti» all’epoca, i «porcheristi» oggi non solleverebbero scaldalo alcuno, se non quello modesto del politicamente corretto: è la prova che furono, anche, dei precursori.