la Repubblica, 13 aprile 2022
L’anima cosacca che fece l’Ucraina
Osservo le immagini dall’Ucraina pensando ai cosacchi del Dnepr, e alle statue di bronzo dei loro tre etmani sulle piazze di Lepoli, Kiev e Poltava. Gli europei danno poca importanza ai memoriali dei morti ammazzati, avendo scordato cos’è la guerra. E invece le guerre bisognerebbe ricordarsele sempre, specie quelle cosacche visti i tempi. Anzitutto perché la storia ucraina è storia europea, e ci riguarda da vicino. E poi perché le vite da romanzo di questi etmani ci dicono che l’invasione di Putin non è diversa da quelle tartare, lituane, turche, polacche e zariste che l’hanno preceduta: nessuna delle quali riuscì a conquistare le steppe ucraine, né a sottomettere la stirpe cosacca che le abitava già nel XIV secolo.
A quel tempo la resistenza partiva dalla Si?’, un accampamento oltre le cataratte del Dnepr, dove i cosacchi zaporožtsy si allenavano al combattimento allevando cavalli, cacciando orsi e facendo baldoria. La più gloriosa fu quella sull’isola di Chortitsa, “tagliata a colpi d’ascia”. Per anni, tra il XV e il XVIII secolo, fu la patria della cosacchità, il quartier generale dove si preparavano le incursioni contro turchi, polacchi e russi. Un reame semifiabesco, avvolto nel mistero, sul quale è difficile fare piena luce poiché russi, ucraini, polacchi, rumeni, turchi, lituani e svedesi raccontano la sua storia in modi diversi.
Su un fatto sono tutti d’accordo: che i cosacchi del Dnepr non facevano parte di alcuna comunità, né pagavano tributi. Erano “uomini liberi”, una fratellanza guerriera. Per secoli gli etmani furono il bastione degli zar, con cui condividevano la fede ortodossa, respingendo verso sud gli infedeli tartari e turchi e verso ovest i cattolici polacchi. Ma a un certo punto Mosca cominciò a temere i loro reggimenti indisciplinati, e il sentimento di ribellione che li animava. E così, nel 1764, Caterina II fece radere al suolo la Si?’ e cancellare l’Etmanato dalla carta geografica. Senza per questo intaccare il mito dei cosacchi e delle loro guerre alla frontiera europea (Ucraina vuol dire “terra di confine”): un’epopea che non ha uguali nel resto del continente e che rimanda al Far West americano.
Bisogna partire da Ivan Pidkova, eroe della resistenza ai turchi nel XVI secolo, per avere un’idea di cosa sia un destino cosacco. La sua statua è quella di Leopoli, in Ucraina occidentale, dove venne decapitato dai polacchi nel 1578. In vita aveva sconfitto i maomettani sulle coste del Mar Nero, per poi inseguirli con una flottiglia di baïdaks fino a Tsargrad (Costantinopoli). Il poema di Taras Shevchenko rievoca i corpi senza vita dei suoi cosacchi, coperti da drappi rossi. E a rileggerlo penso che almeno loro morirono da soldati. A differenza dei civili uccisi in questi giorni dai russi, cui per giunta, invece del drappo rosso, tocca un anonimo sacco nero.
A Bohdan Khmelnytsky, in sella a un cavallo di bronzo nella piazza più moscovita di Kiev, si ispirò Gogol’ per il suo Taras Bul’ba. In realtà, oltre che per i pogrom, è ricordato per lo storico patto del 1654 con cui si sottomise allo zar, in cambio di aiuto nella rivolta contro i polacchi. Con esso l’Ucraina fu risucchiata nell’orbita russa, e la Polonia uscì per sempre di scena. Nessuna sorpresa quindi che nel romanzo Col ferro e col fuoco del Nobel polacco Henryk Sienkiewicz – quello di Quo Vadis? – l’etmano venga paragonato a un “vampiro”. E che ad esaltarlo siano invece i russi (Krusciov, nel 1954, “regalò” a Kiev la Crimea per celebrare i 300 anni dal suo patto con lo zar) e gli ucraini (per aver dato forma all’Etmanato antesignano dell’Ucraina moderna).
Poi venne il tempo di Ivan Mazepa, la cui statua non poteva che trovarsi a Poltava, il campo di battaglia dove nel 1709 finirono i suoi sogni di gloria. Protagonista di un’amore e di un tradimento alla vigilia dello scontro fatidico, si schierò infine con l’esercito svedese di Carlo XII anziché con quello vittorioso di Pietro il Grande. Il che lo costrinse alla fuga, trasformandolo in eroe romantico e letterario. Scrissero di lui Byron e Hugo. Ma fu Puškin – nel poema Poltava – a ritrarlo da una prospettiva zarista. Corrotto, malvagio, imprevedibile. Il fatto poi che avesse tradito lo zar assieme a una parte dei suoi reggimenti, provava senza ombra di dubbio l’inaffidabilità dei cosacchi del Dnepr. Di qui la decisione di Caterina II di farla finita con l’Etmanato e di incorporarlo all’impero. Il che, oltre a mettere fine al sogno cosacco di indipendenza, fu la premessa per la nascita della questione nazionale ucraina che come sappiamo doveva risolversi solo con la dissoluzione dell’Urss.
Ora a questo proposito ciascuno è libero di pensare quel che vuole, ci mancherebbe altro: ma certo è difficile non vedere nell’invasione di Putin dell’Ucraina l’ennesima variazione sul tema, ormai millenario, dei rapporti di forza tra l’impero russo e i popoli limitrofi. «Non ho altro modo di difendere i miei confini se non quello di espanderli» diceva Caterina II. Che è esattamente quel che Putin ripete ai suoi generali da un paio di decenni a questa parte, come si era già visto in Cecenia, in Georgia, in Crimea, nel Donbass...
Ecco perché i soldati ucraini che oggi difendono le loro città dall’attacco russo fanno pensare ai cosacchi della Si?’. In fondo continuano a combattere per la stessa terra, per la stessa causa, per la stessa nazione. In una guerra che vede da una parte la Russia di Putin, la più zarista di sempre, e dall’altra un’Ucraina indipendente, sovrana ed europea che affonda le proprie radici nel mito dell’Etmanato. Il che ci riporta al punto da cui siamo partiti, all’importanza di questa pagina di storia cosacca per decifrare il presente continentale. Perché al mondo, diceva Eliot, i morti contano più dei vivi. E quindi la verità, che abita nel tempo profondo, si coglie solo se si sanno frequentare i pensieri e le azioni di quelli venuti prima.
«Attorno a ogni statua che noi innalziamo loro, i morti aleggiano» scrisse Gustav Fechner nel suo Libretto sulla vita dopo la morte.
Dove non tanto tramite il mito, il cristianesimo e i classici, come Eliot, ma più che altro con la filosofia e la psicologia sperimentale, anticipando Freud, cercò una via per collegarsi al passato mediante la comunità dei defunti. Una lettura luminosa, che insegna a vedere più cose di quelle che ci mostrano gli occhi. E che al cospetto dei nostri tre bronzi cosacchi a Leopoli, Kiev e Poltava, può oggi aiutarci a percepire tutta la loro furia, la loro collera e la loro indignazione. Per questo ennesimo assalto dello zar all’Etmanato, di una brutalità che neanche l’orda dorata mongola…