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 1962  aprile 15 Domenica calendario

I candidati al Quirinale del 1962. Giovanni Gronchi

I candidati al Quirinale
GRONCHI
Di Indro Montanelli
Corriere della Sera, domenica 15 aprile 1962
Tra i vari pretendenti al  posto di Giovanni Gronchi,  Giovanni Gronchi ha il vantaggio e lo svantaggio di essere  quello che tuttora lo occupa. In cosa consista lo  svantaggio, è chiaro. Pur senza che la costituzione ne faccia esplicito divieto, il rinnovo di una  carica che dura sette anni suscita in tutti qualche riluttanza. E per di più chi la detiene ha, per òvvi motivi di discrezione, o dovrebbe avere, le mani un po’ legate.
In giro si sente dire tuttavia che Gronchi non ha affatto  rinunciato e che anzi, per  facilitare la propria conferma,  sarebbe disposto, nel caso ih cui  l’ottenesse, a proporre un  abbreviamento di scadenze,  trasformando il settennato in  quinquennato. Si tratta di voci e basta, si intende; ma che già  caratterizzano l’uomo, o almeno  l’opinione che la gente si è fatta di lui, magari a torto. Di un De  Nicola o di un Einaudi, una cosa simile non la si sarebbe mai mormorata. D’altra parte Gronchi ha  tutte le ragioni di questo mondo per non sottovalutare la  posizione di privilegio in cui si  trova. Nessuno dei suoi diretti  rivali può contare su una  maggioranza sicura. Anzi, tutto  lascia credere che si  bloccheranno a vicenda, creando una di quelle situazioni che possono far apparire lo status quo come  l’unica soluzione di un problema inestricabile. Gronchi  rappresenta un’esperienza già fatta, e la sua riconferma potrebb’ essere un modo di cavarsela senza  umiliazione per gli altri pretendenti.
Un’altra specialità di Gronchi, che potrebbe in definitiva  volgersi a suo profitto, è di non rappresentare nulla. Il lettore non mi fraintenda. Con ciò non voglio dire che l’attuale capo dello Stato sia uomo da poco (anzi, caso mai, egli è uomo da tutto). Voglio soltanto dire che non ha dietro di sè una forza costituita e qualificata, dalle cui sorti dipenda quella sua.  Saragat, per fare un esempio, si sa benissimo chi è e cosa  interpreta: è il candidato del  centro-sinistra, di cui la sua elezione  costituirebbe la garanzia, e come tale appunto può non piacere a molti. Segni è il candidato di un centro puro, su cui potrebbero convergere anche le simpatie di voti dei liberali e dei  monarchici, oltre a quelli di una  grossa frazione del suo partito, e  appunto perciò molte altre  simpatie e molti altri voti potrebbero divergerne. Gronchi ha con sè solo alcuni amici da contarsi  sulla punta delle dita e che lo sono à mero titolo personale. È un isolato, come lo era nel 1955. quando su di lui conversero non delle forze, ma tutti quei  dispetti e ripicchi di partiti, di  correnti e di uomini, che fecero della sua elezione il primo clamoroso esempio di milazzismo della  nostra storia contemporanea.
Tanto poco si sapeva, anche allora, cosa rappresentasse  Grónchi, che la sua scelta suscitò  inquietudini e discussioni a non finire. Comunisti e socialisti  videro in lui un nemico del patto Atlantico, monarchici e missini un nostalgico nazionalista.  Forse avevano ragione tutti. Forse avevano tutti torto. Nessuno può dirlo. Nessuno può dirlo perché in questi sette anni una qualifica precisa Gronchi non mi pare che l’abbia assunta. Di certo, di  sicuro, o almeno di facilmente  discernibile nella sua azione c’è stata soltanto la gran voglia di governare che si portava in  corpo quando s’insediò al  Quirinale;. Non gli era mai riuscito perché anche nell’interno della  democrazia cristiana non aveva assunto nessuna fisionomia,  salvo quella di «nemico di De  Gasperi» che ih realtà non è  molto caratterizzante. De Gaspcri di nemici ne aveva parecchi  altri, nell’interno del suo partito. Ma di ognuno di essi si  sapeva, o si capiva, perché e su  cosa Io combattevano. Nella  polemica contro di lui c’erano  insomma, oltre che degli uomini, delle idee, cui facevano capo delle «correnti» e delle «tendenze». A Gronchi faceva  capo soltanto Gronchi.
Qualcuno imputa alla  ostilità di De Gasperi, il quale —  dicono – non ha mai odiato  nessuno come lui, il fatto che  Gronchi sia sempre rimasto solo,  nonostante le sue notevoli doti di manovra e di parola. Ma il  fatto è che anche dopo la morte dello statista trentino, Gronchi non riuscì a formarsi un  gruppo suo. I suoi interventi, sia nei congressi che nelle riunioni di partito, erano sempre, dal punto di vista oratorio, fra i  migliori. Ma cadevano su un  terriccio reso sterile dalla  diffidenza e dall’incredulità. Forse a  torto, nessuno era disposto a  riconoscervi altro che l’autocandidatura alla presidenza del  Consiglio. E anche questo, non c’è che dire, è un programma, ma su cui è difficile coagulare dei consensi.
Non si può giurare ch’egli si accinse all’esercizio della  suprema carica dello Stato col fermo proposito di rivalersi contro le amarezze e le delusioni che gli erano derivate da quel decennio di solitudine e di frustrazione. Ma forse egli ebbe il torto di non rendersi conto che tutti  glielo attribuivano, pronti a  trovarne conferma in ogni suo gesto che sconfinasse oltre i limiti  della più assoluta ortodossia  costituzionale. Egli ne ha compiuti parecchi che magari, se  avessero portato la firma di un De  Nicola o di un Einaudi, sarebbero passati inosservati. Ma con la firma sua, diventavano  inquietanti. Io non voglio entrare nel  merito di queste sue interferenze anche perché occorrerebbe  conoscerne tanti particolari tuttora in contestazione fra le parti  interessate. Forse ci sono dei retroscena, che noi osservatori non conosciamo, forse ci sono delle cose che sono state male  intcpretate o molto esagerate. Ma un fatto resta, sicuro: che a un  certo punto nel Paese si creò un certo disagio e una notevole  confusione. Con i due predecessori di Gronchi si era saputo in che regime si viveva: era quello – buono o cattivo che sia – di una Repubblica parlamentare. Con Gronchi non se n’era più del tutto certi. Egli aveva una sua idea dei problemi  internazionali, che spesso non  coincideva con quella di palazzo  Chigi, e per propagandarla  prendeva l’iniziativa di viaggi all’estero dove parlava del governo  italiano come del «suo» governo. Forse c’è in tutto questo più ingenuità che vanità. A  differenza di De Gasperi che, per  quanto trentino, si era formato a Vienna, capitale di un grande impero. Gronchi è un  provinciale di Pontedcra, che non ha una percezione molto realistica dei rapporti di forze nel mondo. È stato volontario e coraggioso combattente nella prima guerra mondiale, e ha respirato a  pieni polmoni l’aria del ’15 c del ’19, satura di polline  nazionalista. Egli crede a una «missione» autonoma dell’Italia ed è convinto d’incarnarla. Certe sue commozioni patriottiche sono sincere. Quando, per esempio, a Buenos Aires, si trovò preso nel rumoroso entusiasmo delle  masse degl’italiani emigrati, le  lacrime che gli colarono dagli  occhi erano vere come il  singhiozzo che gli ruppe la voce.
Viaggia molto, e con grande osservanza a del rituale, tiene alle forme,  partecipa volentieri alle  manifestazioni, mobilita con facilità i  corazzieri, perché ci vede  affermazioni di prestigio nazionale. Tutto questo ha il suo bello, ma sembra fatto apposta  per dare corpo ai sospetti che ormai la pubblica opinione nutre sul suo conto. Probabilmente anche le voci che corrono sulle  manovre ch’egli starebbe copcrtamente svolgendo per restare al  Quirinale e che sarebbero in  flagrante contrasto coi suoi doveri di capo di Stato al di sopra  della mischia, sono false. Ma  corrono ugualmente, e non c’è  modo di fermarle, perché  somigliano al Gronchi che tutti  conoscono o credono di conoscere: un presidente del Consiglio  fallito che cerca la sua rivincita nella presidenza della  Repubblica, e non per condurla a destra o a sinistra, ma solo per  condurla, per serbarvi una posizione di arbitro, e valersene per  interferire nelle faccende del governo.
Certo, si tratta di una  spiegazione sommaria e  semplicistica. Gronchi non è un uomo improvvisato. Ha un notevole bagaglio di cultura. Viene da una lunga esperienza politica. E non è pensabile che tutte le sue ambizioni si riassumano in una  carica, sia pure quella suprema di capo dello Stato. Ma purtroppo la sua azione è sempre stata così oscillante, contraddittoria e in certi casi velleitaria, che la pubblica opinione ne ha perso il filo, e ha finito per credere che non ne avesse nessuno.  Andò al Quirinale con una vaga aureola di uomo di sinistra, ma poi si scelse come ministro di fiducia Tambroni. che a sua volta andò al potere con una vaga aureola di uomo di sinistra, ma poi vi si mantenne grazie all’appoggio delle forze più conservatrici e retrive. E ognuno riconobbe o credette di riconoscere nel protetto, come in uno specchio deformante, l’immagine del protettore.
Tutto questo però non  significa che le probabilità di Gronchi sono scarse. Lo sarebbero se la pubblica opinione contasse qualcosa, nelle elezioni  presidenziali. Ma esse si svolgono in base ad altri calcoli, a ben diverse alchimie, dove certi elementi  negativi possono invece provocare reazioni positive. Appunto perché non rappresenta nulla in quanto non s’identifica con nessuna forza, con nessun programma e perfino con nessun partito, e meno di tutti il suo, Gronchi può apparire a un certo punto la soluzione di comodo, un modo pilatesco di lavarsene le mani e di uscirne per il rotto della cuffia. Molti infatti cominciano già a dire che il Gronchi del ’62 non è più quello del ’55, £ che in sette anni di esercizio il mestiere lo s’impara, e che alla sua età non si possono aver più per la testa certi grilli autoritari.
Pronostici, nessuno si azzarda a farne. Ma una cosa si può  dire con sicurezza: che col  crescere delle incertezze, crescono le probabilità di chi, come Gronchi ha sempre prosperato appunto nelle situazioni incerte. Può anche darsi che nell’attuale momento politico italiano ci sia bisogno di un uomo come lui. Così disancorato – sembra – da rigide pregiudiziali  ideologiche e disponibile a ogni «svolta». Eppoi, c’è anche un altro, problema, che deve angustiare non poco specialmente i democristiani: che cosa fare di Gronchi, se Gronchi smette di fare il presidente della Repubblica. De Nicola e Einaudi questa preoccupazionc non la ispiravano: c’era in loro quel pizzico di Cincinnato che rassicurava tutti. Forse anche in Gronchi ce n’è e molto più di quanto in genere si creda. Ma il guaio è che nessuno se n’è mai accorto.
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