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 2022  aprile 13 Mercoledì calendario

Biografia di Umberto Smaila raccontata da lui stesso

C ome in quella notte newyorkese di fine anni Novanta che «in un affollatissimo Downtown Cipriani di Manhattan, con Jennifer Lopez e Puff Daddy a due tavolini da me, dal nulla intonai un poderoso “all’alba vincerò, vinceròo, vin-cee-ròoo” manco fossi Pavarotti e con l’acuto per poco non incrinai i bicchieri di cristallo». E non fu che l’inizio dello show improvvisato, senza orchestra ma con l’accompagnamento di forchette e coltelli picchiettati sulle bottiglie di champagne. «Tempo mezzora e cantavano tutti il ritornello degli ombrelloni». 
Eh? 
«Ma sì, quello che fa: “Per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia, stesso mare”. Pure l’agente dei Rolling Stones e una spia del Mossad, uguale identico a quelli dei telefilm, impassibile, stempiato, abbronzato». 
Uno 007 israeliano con licenza di uccidere che si unisce al coretto balneare come un villeggiante sul torpedone? 
«Oh sì, beh, non credo che né lui né nessuno dei presenti avesse bevuto proprio gazzosa, e comunque a me non si resiste, ho un potere demiurgico, persino, che so, al club dei mangiatori di anguille, partono freddini e poco dopo fanno i trenini», racconta sornione Umberto Smaila, ciuffo libero, baffetti, occhialino e maxi-sigaro, 71 anni e oltre cinquanta trascorsi ad allietare il prossimo, dai giorni gagliardi del Derby Club di Milano con gli altri tre Gatti di Vicolo Miracoli, a quelli ruspanti e scollacciati delle ragazze Cin Cin di Colpo Grosso, alle gaudenti serate estive di piano bar in Sardegna o sul Mar Rosso o sulle navi da crociera, sottofondo musicale per amori, ripicche e intrecci sentimentali o politici. E nel mezzo 33 colonne sonore: «La prima per “La belva con il mitra”, un filmaccio violentissimo con Helmut Berger, manco un B movie, uno Z. Però Quentin Tarantino ne ha ripreso 6 minuti per “Jackie Brown”. Doppio affare: sono nei titoli di coda e mi hanno pagato duemila dollari». 
A 10 anni, serio serio, suonava Chopin. 
«In terza elementare la maestra convocò i miei genitori per segnalargli una mia attitudine artistica. Fui iscritto al corso di dizione e recitazione e a quello di pianoforte e solfeggio. Il classico nipotino che veniva messo sulla sedia per recitare le poesie ai parenti. A scuola ero il primo della classe, un bambinone con il fiocco azzurro e il colletto bianco. Prendevo sempre dieci, poi sono peggiorato». 
Papà era fabbro. 
«Costruiva ringhiere e cancelli insieme ai fratelli, i tre Smaila emigrati da Fiume, lo guardavo battere il ferro con quel freddo e mi faceva compassione, per i geloni gli vennero due manone grosse così che quando mi accarezzava pareva un orso buono. Ex sassofonista, si chiamava Guerrino perché era nato nel 1915». 
A 18 girava con i capelli dipinti d’argento. 
«A fine anni Sessanta Verona era la Liverpool italiana, io il tastierista dei Killjoys, e il proprietario del locale in cui si andava a suonare – gratis, ovvio – si inventò questa trovata per distinguerci da un’altra band con i capelli verdi. Mi spruzzavo in testa una laccaccia argentata comprata dal ferramenta e attraversavo la città in Lambretta, purtroppo senza casco perché non si usava, vergognandomi come un ladro». 
Nel 1971 i Gatti approdano al mitico Derby. 
«Ninì Salerno e Franco Oppini erano in classe con me al liceo classico Scipione Maffei, Jerry Calà, più piccolo di un anno, lo abbiamo ripescato più tardi, quando già studiavo Giurisprudenza all’università, scegliendo con cura tutti gli esami più facili – mi sono fermato a quindici – ma prima siamo passati per Roma. Dovevano scritturarci per una serie di spot sull’educazione stradale del ministero dei Trasporti. Ci presentammo a casa dei funzionari Rai per fare i provini in calzamaglia nera, tipo I Gufi, non se ne fece niente. La svolta arrivò con Cino Tortorella». 
Il Mago Zurlì? 
«Lui. Ci invitò nella sua villa di Milano a cantare qualche canzone, quindi ci portò prima a mangiare – sia benedetto – e poi al Derby. Fummo letteralmente buttati sul palco, la gente si divertì. Il proprietario ci pagò 5 mila lire a testa. “Ora scrivete qualcosa di nuovo e saranno 10 mila”. Restammo due mesi chiusi in casa». 
Andò subito alla grande. 
«Momenti irripetibili, con Paolo Villaggio, Enzo Jannacci, Cochi e Renato, mostri di bravura. Eravamo i più piccoli, i cocchi di mamma». 
Abatantuono era il vostro tecnico delle luci. 
«Avrà avuto diciassette anni e di studiare non aveva più voglia. Possedevamo un riflettore solo, il suo massimo compito era premere un pulsante, tic, acceso e tic, spento. Sarebbe stato anche il nostro autista, però non si decideva mai a prendere la patente, perciò guidavo io, e Diego era seduto accanto a me, perché eravamo i più grossi, gli altri tre si schiacciavano sul sedile di dietro del catorcio di turno. Era Jerry che provvedeva all’acquisto, sempre a prezzi stracciati, perciò regolarmente si fondeva il motore». 
Il successo in tv con «Non stop», programma cult di Raiuno dal 1977 al ’79. 
«Di nuovo fu merito di Mago Zurlì. Vivevamo in una specie di comune di artisti in via Venini, a Milano. Cino ci chiamò come ospiti nel suo programma per ragazzi, dove ci notarono gli agenti di Pippo Baudo, Gentile e Marangoni, che ci presero nel cast assieme a Massimo Troisi, Enzo Decaro e Lello Arena, ai Giancattivi, a Carlo Verdone, a Gaspare e Zuzzurro, si girava a Torino». 
Regia di Enzo Trapani, che – lo ha raccontato Jerry – portava sempre una pistola nella fondina sotto l’ascella. 
«Un vezzo, non gli abbiamo mai chiesto perché, purtroppo alla fine l’ha usata». 
Cantavate: «Hai provato a dire basta all’aumento della pasta. E bagnare poi di lacrime il ragù». Carlo Verdone ha ricordato: «Il primo a credere in me fu Umberto Smaila. Era spiritoso e tirava su il morale a tutti, non sentiva invidie o gelosie. Fu il mio antidepressivo». 
«Con Carlo si faceva comunella, gli provavo i pezzi in camerino e gli consigliai di puntare sul capellone in tunica bianca che distribuisce i volantini dei Bambini di Dio. “Diventerai il nuovo Sordi”. “Io? Ma che stai a di’?”» 
Nel 1981 Jerry va per conto suo e lei la prende malissimo. Non vi siete parlati per anni. Rancoroso? 
«Leale. Ci eravamo giurati una sorta di eterno amore, fu una pugnalata. Poi però mi capitò la stessa cosa e lì ho capito che quando il treno passa, ci sali. Dopo ci siamo chiariti e adesso ci sentiamo tutti i giorni, a Pasquetta ci ritroveremo noi quattro al solito ristorante di Verona». 
Nel 1987 e per 4 stagioni scandalizzò l’Italia con gli spogliarelli piccantini delle ragazze Cin Cin a Colpo Grosso su Italia 7. 
«Non mi aspettavo un successo del genere, altrimenti avrei firmato un altro contratto. Girammo 800 puntate, fu venduto in tutto il mondo e replicato per 18 anni consecutivi, passava il tempo e io restavo sempre giovane, un miracolo». 
Le femministe la inseguivano col forcone. 
«Più che altro si indignarono i benpensanti, i codini, i borghesi, però lo guardavano eccome. Conservo religiosamente le recensioni entusiaste di Beniamino Placido e Oreste Del Buono». 
Ma è vero che pure Mikhail Gorbaciov, padre della Perestrojka, era un appassionato? 
«Si fece mandare le videocassette in albergo e credo se le sia portate al Cremlino, forse saranno in un cassetto di Putin». 
Già che c’era, ha mai preso una scuffia per una Cin Cin? 
«No, guardavo e basta, ero già sposato e padre. E poi non c’erano grandi pause per socializzare, si giravano quattro puntate al giorno, mi facevano un male i piedi, avevo di quei calli...». 
Ai tempi dei Gatti i due rimorchioni eravate lei e Jerry. 
«Avevamo un discreto successo. Io puntavo sul pianoforte... “September morn” di Neil Diamond era infallibile... più qualche citazione colta di Calvino o Céline buttata lì... che poi spesso la corteggiata chiedeva perplessa: “E chi sarebbe?”, ma sorvolavo». 
Ha desiderato essere più magro? 
«No, del peso non mi importa. Ora purtroppo mi tocca stare a dieta perché mi sono rotto due volte il femore, in un bagno turco alle Bahamas e su un tapis roulant alla Malpensa, perciò niente vino, grappa e birra, niente pasta, pane, salumi, devo tenermi in forma... così da poter correre in scioltezza al ristorante». 
Incontri artistici folgoranti? 
«Con Elton John, quando facevo “Buona Domenica” su Canale 5 con Gerry Scotti e Gabriella Carlucci, nel 1993. Era il mio idolo, mi buttai in ginocchio davanti a lui e lui – divino – si inginocchiò con me, conservo la foto come un santino di Padre Pio. E poi James Brown, non so se mi spiego. Cantò “I feel good” solo per me». 
E infine venne l’era dei suoi Smaila’s e delle vippissime serate di musica dal vivo. 
«Il primo aprì nel 1991 a Poltu Quatu, in Sardegna. Poi quello di Sharm el Sheikh. Ne restano due, a Tropea e a Porto Rotondo». 
Ha fatto da Gran Cupido. 
«Per Francesco Totti e Ilary Blasi. Idem per Simona Ventura e Stefano Bettarini. Ricordo un Niki Lauda insospettabile ballerino. E Mike Tyson, che convinsi a cantare “My Way”. Solo che a cena aveva mangiato spaghetti alle vongole con un chilo d’aglio, mamma mia, stavo svenendo. Aggrappato al suo braccione, soffrii in silenzio». 
I duetti con Silvio Berlusconi. 
«La prima volta a Poltu Quatu fece un recital alla Aznavour. Qualche anno fa è tornato allo Smaila’s di Porto Rotondo, portandomi in dono tre cravatte delle sue, quelle napoletane». 
E vi siete esibiti con «I migliori anni della nostra vita» di Renato Zero. 
«Chi non lo conosce non sa che tipo è. Straordinario. Gli sarò eternamente grato, mi ha dato da lavorare e come presidente del Milan è indimenticabile. Non ci sentiamo spesso, ma lui sa che, se occorre, io ci sono, e io so che lui c’è per me. Silvio è Silvio».