Corriere della Sera, 13 aprile 2022
Le follie nella centrale di Chernobyl
Brutalità, ignoranza, disprezzo del nemico, ma anche di sé stessi e dei propri soldati, vista la maniera sconsiderata e autolesionista in cui si sono comportate le forze d’invasione russe nella regione radioattiva della centrale nucleare devastata dal disastro del 1986: sono le conclusioni che s’impongono ascoltando le ultime cronache da Chernobyl. Visitare in compagnia dei tecnici ucraini la «zona di esclusione» attorno al gigantesco «Sarcofago», che l’intera comunità internazionale contribuì a costruire per arginare le particelle avvelenate del reattore fuso, porta inevitabilmente a toccare con mano gli aspetti più tragicamente assurdi di questa guerra nelle terre d’Europa.
«Lo so che sembra incredibile e inizialmente anche noi tecnici che lavoriamo alla centrale abbiamo cercato di avvisare gli ufficiali russi che occorreva fare molta attenzione. Non dovevano smuovere la terra fuori dalle strade asfaltate o i sentieri tracciati. Del resto, sta scritto su tutti gli avvisi per i visitatori qui attorno. E soprattutto non dovevano toccare il materiale radioattivo senza protezioni. All’inizio pareva che avessero capito e fossero disposti ad ascoltarci. Ma, quando poco più di un mese dopo si sono ritirati, hanno saccheggiato e devastato senza riflettere sulle conseguenze. Ho visto soldati mettersi nella tasca dell’uniforme alcuni ionizzatori e altri oggetti pericolosi rubati dai laboratori che mai avrebbero dovuto maneggiare. Sono certo che adesso sono già all’ospedale affetti da dosi eccessive di radiazioni: se non si curano subito potranno sviluppare forme cancerogene in pochi anni», racconta Maxim Chevchuk, 41 anni e da due vicedirettore dell’intero impianto che ieri ci ha condotto nella zona.
Colonne blindate
Roslan, uno degli ufficiali di guardia dove sino al 23 febbraio i visitatori venivano controllati, ammette che per le colonne blindate russe catturare Chernobyl fu relativamente facile. «Il confine con la Bielorussia si trova ad appena 25 chilometri da qui. Con noi avevamo circa 170 soldati della Guardia nazionale dotati unicamente di armi leggere. Le colonne blindate russe attaccarono all’alba del 24 febbraio e prima di mezzogiorno oltre 50 tank stavano nel piazzale di fronte ai nostri uffici con i cannoni puntati. Le grandi battaglie per fermarli sarebbero avvenute nei giorni seguenti alle porte di Kiev, un centinaio di chilometri più a sud. Fu allora deciso di arrendersi per due motivi principali: i nostri soldati sarebbero stati inutilmente massacrati e soprattutto si voleva evitare qualsiasi danno alla centrale nucleare, che avrebbe potuto causare una tragedia anche peggiore rispetto a quella del 1986», ricorda. Per i russi il solo nome di Chernobyl rappresenta un’onta, una macchia da lavare: assieme alla debacle afghana degli anni Ottanta fu tra le cause maggiori del crollo finale dell’Urss. «Non pensavamo che i russi avrebbero voluto occuparci tanto in fretta», ammette Roslan. Lui coi suoi uomini stanno correndo ai ripari: è il motivo per cui oggi non ci fanno visitare le aree sensibili, trincerano le zone a nord della centrale, i genieri fanno saltare le mine lasciate dai russi e costruiscono fortificazioni.
Il futuro
Per ora l’attenzione dei comandi è spostata su Mariupol e sul Donbass. Ma qui impera la convinzione che Putin riproverà nel futuro a prendere Chernobyl per poi tornare a puntare su Kiev. Tuttavia, in un primo tempo il rapporto con i tecnici ucraini era stato di cooperazione. «Non voglio dire che non ci fossero tensioni. I russi avevano catturato i nostri soldati e di loro non sappiamo più nulla. Però, oltre cento dei nostri tecnici sono rimasti a supervisionare che l’impianto non subisse danni. Gli ufficiali russi parevano consapevoli del disastro di 36 anni fa e non interferivano. Le loro colonne corazzate transitavano senza fermarsi. Erano certi di poter vincere in pochi giorni, sembravano ottimisti», specifica ancora Maxim. Ma le cose degenerarono man a mano che le perdite russe aumentavano e le loro colonne s’impantanavano: la rabbia russa crebbe con la frustrazione. Iniziò allora la persecuzione dei civili: agli occhi dei soldati russi ogni ucraino era un pericoloso nemico. «Il primo allarme scattò attorno al 5 marzo, quando l’assenza di carburante rischiò di fare saltare il pompaggio dell’acqua per il sistema di raffreddamento del reattore. I russi cooperarono poco, non ci dettero neppure un goccio della loro benzina», dicono i tecnici. Intanto però scattarono gli arresti. I russi scavarono trincee nella terra radioattiva, i loro carri armati sollevavano nuvole di polvere radioattiva. «Quelli che dormivano nei bunker scavati di fresco avranno vita corta», dice sorridendo il 68enne Vasily Davrdenko, che da 30 anni si occupa dell’oasi faunistica cresciuta nella zona chiusa.
Le crudeltà dei soldati
«Sparavano a cerbiatti e uccelli rari. Non avevano rispetto di nulla. Fermavano gli uomini giovani e li facevano spogliare per vedere se avevano tatuaggi nazionalisti o ferite di guerra. Quando poi verso gli ultimi giorni di marzo hanno capito che si sarebbero ritirati è iniziato il saccheggio», commenta. In poche ore i russi rubano tutti i computer, compresi quelli che monitorano i sensori di controllo della radioattività, portano via persino i vestiti e le valigie dei tecnici ucraini. Nel bottino ci sono anche 133 componenti di materiali radioattivi che pesano oltre 700 chili. Gli ufficiali russi lasciano fare, i soldati diventano predoni. «Erano per lo più ceceni, oppure reclute giovani delle province orientali, molti avevano fattezze asiatiche — ricordano ancora i tecnici —. Sembravano ignoranti delle conseguenze. Ma erano violenti, lasciammo fare. Meno di tre ore dopo l’ordine di evacuare erano tutti spariti».