Linkiesta, 13 aprile 2022
In Giappone c’è un bar dove ti obbligano a lavorare
Ho passato il pomeriggio di ieri a pentirmi di non aver mai studiato il giapponese. Cos’avrò avuto di meglio da fare nella vita: il punto-croce non l’ho imparato, le arie d’opera neppure, il greco antico non ne parliamo.
Se sapessi il giapponese, ora non dovrei affidarmi a Google Translate per capire se una certa notizia sia il segno del genio o l’ennesima stronzata, per capire se finalmente sia arrivata la cura per il male che affligge tutti noi abitanti d’un’epoca privilegiata, in cui non tocca lavare i panni al fiume né metterci tre giorni per andare a trovare i parenti lontani né approfittare delle ore in cui c’è la luce del giorno per risparmiare sulle lampade a olio se facciamo mestieri intellettuali.
Noi che abbiamo un sovrappiù di tempo, e ci concediamo quindi il lusso di sprecarlo. E poiché siamo quel che mia nonna avrebbe definito «degli sfacciati senza faccia», la perdita di tempo non la chiamiamo lusso, non la chiamiamo arroganza, non la chiamiamo dissolutezza. Noi fingiamo sia una nevrosi, e la chiamiamo: procrastinazione.
Ho un’amica che, ogni volta che mi vede litigare su Twitter, mi scrive: ti vedo che hai una consegna. Quelli che non stanno sui social (che il dio della sanità mentale li abbia in gloria), procrastinano in altri modi. Risolvono cruciverba facilitati, sistemano la cucina finché le spezie non sono in ordine alfabetico o puliscono le fughe delle piastrelle con lo spazzolino da denti, danno confidenza a un testimone di Geova che ha citofonato. Non ho niente contro gli scrittori, ho molti amici scrittori: non ce n’è uno che non pagherebbe pur di non scrivere.
La notizia, dunque, è l’apertura, in un quartiere di Tokyo, del「原稿執筆カフェ」(ho copincollato dalla loro pagina ufficiale, se ci sono delle parolacce prendetevela coi programmi scolastici che nel Novecento non ci facevano studiare il giapponese). Dovrebbe voler dire: bar per la scrittura di manoscritti.
È un posto dove paghi 300 yen (poco più di due euro) l’ora per farti imporre produttività. All’arrivo dici quante pagine devi produrre nel tempo in cui stai lì, e alla fine qualcuno controlla, e non ti lascia andar via se non hai prodotto quanto ti eri imposto. Non sono riuscita a capire, dal sito, cosa succeda se alla fine del tempo previsto non hai ottemperato alla tua scadenza, non hai consegnato le pagine di sceneggiatura o l’articolo o quel che dovevi finire (nella lista delle attività che puoi praticare al caffè c’è anche la correzione di bozze, in quel caso come la quantifichi: se revisioni cento pagine senza cambiare niente vale di meno o di più che se ne revisioni una cambiando cento cose?). Non ti fanno andar via, ma in che modo: chiamano la procrastination police che ti lega alla sedia? Ti raddoppiano la tariffa oraria disincentivandoti con la multa implicita?
Probabilmente non succede niente: sono giapponesi, se vengono meno a un impegno preso come minimo si suicidano per la vergogna senza bisogno che altri li puniscano. Noialtri, un posto così non potremmo avercelo mai. Noialtri cialtroni locali che se abbiamo lavorato in una redazione ci siamo sentiti dire cento volte «Ma come non ti è arrivato il pezzo, strano, te l’ho mandato», e se siamo stati collaboratori abbiamo detto centouno volte che la nonna ci aveva mangiato il compito (adesso arriva qualcuno a precisare che la nonna muore, è il cane a mangiare il compito, giacché il lettore medio non consegna i lavori che dovrebbe finire ma è attentissimo capufficio non retribuito di tutti quelli che legge).
Noialtri, se a fine giornata non abbiamo raggiunto le dieci cartelle promesse, diciamo che è perché la creatività non può avere ’sti parametri ragionieristici. Noialtri, se qualcuno ci controlla davvero il numero di battute salvate su un file, scriviamo «testo finto» un numero di volte che neanche Jack Nicholson in Shining. Noialtri, se qualcuno osa dirci che il fine ultimo di quel posto è proprio il ragionieristico conteggio delle battute, siamo capaci di obiettare seriamente che quando stiamo guardando fuori dalla finestra stiamo lavorando, e poi di aggiungere pure che è una citazione, sentendoci bacioperuginisticamente colti.
Al bar per manoscritti non si può fare conversazione, come nelle biblioteche, ma c’è la musica in diffusione, perché i proprietari temono che il silenzio spezzato solo dalle mani che digitano produttive sulle tastiere metta l’ansia ai poveri procrastinatori in remissione (siam pur sempre artisti, anime fragili). Al bar per manoscritti puoi bere il caffè della casa o portarti cose da fuori. Al bar per manoscritti sono tutti lì per scrivere quel che devono, quindi c’è nell’aria una certa tensione che aiuta a concentrarsi, giura il sito del posto. Ottimisti. Anzi: giapponesi.
Provate ad aprire un posto del genere non dico a Roma (dove firmeresti per scrivere venti cartelle entro le sei ma lo sanno tutti che vale il quarto d’ora accademico e insomma le sei sono in realtà le otto), ma anche solo a Milano. Partirebbe subito la complicità cialtrona tra i dieci procrastinatori, che metterebbero in rete i loro computer per giocare tutti assieme a qualcosa fino all’ora della chiusura del bar. A quel punto sarebbero i gendarmi della produttività a pregarti d’andartene, riconvertendo il giorno dopo il locale in una tolettatura per barboncini.