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 1962  aprile 17 Martedì calendario

I candidati al Quirinale del 1962. Antonio Segni

I CANDIDATI AL QUIRINALE
SEGNI
di Indro Montanelli
Corriere della sera martedì 17 aprile 1962
Ho con Segni una specie di dimestichezza stratosferica. La prima volta che lo vidi fu in un aereo diretto – manco a dirlo – in Sardegna, e non  scambiammo parola perché non ci  conoscevamo. Il viaggio fu breve, ma movimentato. Sin dalla partenza faceva un tempo pessimo che all’altezza delle Bocche di Bonifacio diventò infernale. Raffiche di pioggia e bordate di vento investivano il velivolo che ballava e sbandava  maledettamente. Chi non era sbiancato in viso per il mal d’aria, lo era per la paura. L’unico che non mostrasse sintomi né dell’uno né dell’altra e che non fosse nemmeno pallido – forse perché lo è da sempre di natura – era il ministro Segni, che non sollevò mai gli occhi da un fascicolo di appunti. Li leggeva con estrema attenzione, ogni tanto sottolineando con la matita qualche passaggio. E solo quando si cominciò a scendere, avventò  un’occhiata distratta in tutta quell’iradiddio fuor del finestrino.
Mi ritrovai con lui e con  Colombo sul Convair del ministero degli esteri in un ritorno da Bruxelles a Roma. L’aereo stava per decollare quando si accorsero che c’era un guasto nei motori e ci fermammo per la riparazione.
«Peccato per Montanelli – fece Colombo sorridendo – Se il guasto fosse sopravvenuto  sulle Alpi, chissà che bell’articolo avrebbe scritto!». «E quante cose si sarebbero semplificate per Fanfani!» aggiunse Segni. La battuta cadeva a proposito: il congresso democristiano di  Napoli era finito da poco, da poco era nato il nuovo governo di centro-sinistra, e già si  profilavano le prime inquietudini per il Quirinale, a cui Segni è uno dei più seri pretendenti.
In realtà quanto ci pretenda egli stesso, non Io so. Da buon sardo, Segni non ha l’espansione pronta e la confidenza facile. È difficile capire cosa covi sotto i suoi sorrisi evasivi e i suoi compatti silenzi. Una grande ambizione, dice qualcuno. Una grande stanchezza, dice qualche altro. Se agisce, se manovra, se lavora per la presidenza, bisogna riconoscere che lo fa con grande tatto e senza dare punto nell’occhio. Ma, stando a certe voci, egli non fa assolutamente nulla; lascia soltanto che facciano i suoi amici, che sono pochi, ma giovani, attivi, abilissimi, e  profondamente, legati a lui. Egli ha avuto la mano felice, nella scelta dei collaboratori. Nel bigoncio democristiano ha scremato senza dubbio i migliori fichi e li ha portati sapientemente a  maturazione. Non è piccolo merito per un uomo di Stato e per il «notabile» di un partito in cui i fichi buoni sono piuttosto rari.
La sorte di Segni ha qualcosa di paradossale. Lungo tutto il decennio di De Gasperi, egli è passato per un uomo di sinistra, quasi per un pericoloso rivoluzionario per via della riforma agraria di cui è stato il padre. Per quella riforma il latifondista Segni ha perso una buona metà delle sue terre, ma ciò non lo ha messo al riparo dalle ire e dalle rampogne. Qualcuno ha perfino detto che con lo scorporo ha fatto un affare: il che è assolutamente falso come ho potuto constatare sul posto. Ma tant’è: in questo nostro Paese basta parlare di riforme per passare da sovversivi. E Segni, oltre che parlarne, ne ha fatta una. Ora questo scapestrato, questo disturbatore dell’ordine costituito terriero si trova ad essere il candidato alla presidenza della Repubblica per le forze politiche di centro, che nel vocabolario contemporaneo è sinonimo  d’immobilismo e di conservazione. Si dice infatti ch’egli può contare, nell’interno del suo partito, sull’appoggio dei «dorotei», dei quali è senza dubbio il più  accreditato esponente; e, fuori, su quello dei liberali e magari  anche dei monarchici.
Non mi si chieda di entrare in questa alchimia di cui sono poco al corrente, e che del resto varia di giorno in giorno, per non dire di ora in ora. Mentre io iscrivo e voi,amici miei,  leggete, si fanno e si disfano  accordi., si contrattano e si rinnegano alleanze, di cui è impossibile  seguire le vicissitudini. I miei più seri informatori sono concordi nel dire che niente di ciò che oggi si stabilisce varrà il 2 maggio. E credo anch’io che sia così. Se in Italia gli uomini politici fossero popolari, come purtroppo non sono (e lo dico con rincrescimento, perché è un sintomo anche questo di scarso attaccamento alle istituzioni  democratiche), Segni sarebbe forse tra i più amati. Il Paese lo ha visto emergere nei momenti più difficili per assumere la responsabilità di governi effimeri e portarli avanti più a lungo di quanto fosse lecito sperare, pazientemente, discretamente, senza fare il passo più lungo della gamba, ma anche senza farlo più corto. Eppoi lo ha sempre visto anche andarsene altrettanto discretamente, senza drammi, senza recriminazioni, senza pugni sul tavolo. In tutti i governi che si sono succeduti nel dopoguerra ha sempre occupato posizioni importanti, ma senza ostruirle. C’è ormai nella politica italiana uno «stile Segni», la cui caratteristica principale è che lo si vede e Io si sente poco. Qualcuno dice che la sua modestia è finta. Sarà. Ma il pubblico gli è grato di saperla fingere: cosa che non a tutti riesce, anzi a pochissimi.
Io non credo che Segni sia un personaggio, come si suol dire, «costruito». L’esperienza  politica, le lotte interne di partito di cui è stai insieme partecipe e testimone, devono aver portato un notevole contributo alla sua  innata cautela sarda, alla sua  diffidenza e circospezione. Ma i suoi compaesani che lo conoscono da sempre mi dicono che il Segni vecchio non differisce molto da quello giovane, che è sempre stato pressappoco cosi: un uomo di poche e ben meditate parole e di forti sentimenti e risentimenti, ma repressi e sotto continua  vigilanza. Anche la sua attuale posizione politica lo dimostra. In fondo, egli è di fatto il capo di una corrente, quella dei «dorotei», ch’è poi la più forte in seno al  partito. Ma non lo si vede. Anche nelle situazioni di polemica e di battaglia aperta, qual era quella in cui si svolse due anni fa il congresso di Firenze, le sue parole e i suoi atteggiamenti non sono mai di «punta» e di «rottura». Grossolanamente attaccato da un giovanottello di Roma che lo accusò  (figuriamoci!) di aver tramato l’attacco a Suez con Eden e Pineau, rispose con poche e distaccate parole. O Dio, non ne abbisognavano molte per smentire una simile sciocchezza. Ma chiunque altro al suo posto avrebbe fatto trapelare almeno lo sdegno. Segni, no. Rispose con imperturbabile pacatezza, si commosse un po’ all’ovazione che il congresso  indignato gli tributò, ma non si valse di quella spontanea  reazione per mettere alla frusta i suoi avversari. Qualcuno più  tardi gli rimproverò di non aver saputo sfruttare il successo per giungere a una vittoria decisiva. Ma per farlo, Segni avrebbe dovuto accentuare i contrasti e drammatizzarli: cosa a cui il suo guardingo temperamento è assolutamente refrattario. Nell’albero genealogico di Antonio ci devono essere generazioni e generazioni di Segni che nel groviglio delle fàidc sarde sono riusciti a  sopravvivere, evitando i tromboni dei briganti senza incorrere nei rigori della legge, solo perché hanno saputo tacere e aspettare. Dicono che se vincesse la corsa alla presidenza, Segni  trasferirebbe il Quirinale a Sassari, il che complicherebbe alquanto le cose per ministri e ambasciatori che dovessero consultarlo. Naturalmente si tratta di un  paradosso. Ma, come in tutti i paradossi, un fondamento di vero c’è.  L’attaccamento di Segni alla sua terra ha qualcosa di carnale, se l’aggettivo «carnale» è  compatibile con la struttura fisica di Segni. Non c’è urgenza di  problemi politici, non c’è infuriare di maltempo che gl’impediscano ogni venerdì sera di prendere il suo aereo per Alghero. Quali fatiche gli costi talvolta  questo riposo, Dio solo lo sa. Ma forse nemmeno Dio sa di dove questo omino esangue ed esausto attinga tanta energia. Segni non trasferirebbe il Quirinale a Sassari, ma certo trasferirebbe un po’ di Sassari nel Quirinale per soffrirvi meno la nostalgia e sentirvisi un po’ più a casa sua. Forse vorrebbe anche dei corazzieri sardi, se la statura consentisse ai sardi di  diventare Corazzieri. Queste debolezze fanno di Segni un personaggio patetico, ma non credo che inciderebbero sulla sua  imparzialità di guardiano della  costituzione. Quante probabilità abbia di diventarlo, non lo so. Egli rappresenta fra l’altro la garanzia di una politica estera atlantica ed europea: il che, invece di giovargli, potrebbe nuocergli agli occhi di tanti elettori, anche del suo partito. Purtroppo il nostro Paese ha sempre prosperato nell’equivoco e non ama le  soluzioni nette. Segni al Quirinale sarebbe la fine dei «giri di valzer» e delle velleità di mediazione fra Oriente e Occidente, che ci hanno tirato addosso il disprezzo e le risate di tutto il mondo, ma che rappresentano la nostra  vocazione all’ambiguità. Segni non è ambiguo. È segreto.
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