Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 12 Martedì calendario

Le poesie degli agenti nella Ddr. Intervista a Philip Oltermann

Sono poesie scritte sotto dittatura. Non nel senso di versi scritti da poeti in tempo di dittatura, no: proprio poesie scritte su incitamento della dittatura stessa, elaborate da spie – «organi», cioè occhi, orecchie e bocche e anche mani, spesso, di quella dittatura – che si riunivano in un apposito circolo. L’indirizzo era a Berlino Est, al primo piano della Kulturhaus dell’Adlershof, un complesso paramilitare che, sulle mappe, non era nemmeno segnato, ma dove si trovavano gli uffici del ministero della sicurezza, le forze speciali, il reggimento di guardia. L’idolo del luogo era Feliks Dzerzinskij, il fondatore della Ceka, la polizia segreta sovietica. Gli anni erano quelli della Ddr, fra il 1962 e il crollo del Muro, e i poeti... erano agenti segreti e collaboratori, quelli che frequentavano Il circolo di poesia della Stasi, che Philip Oltermann, giornalista tedesco del Guardian, racconta in un saggio che arriva oggi in libreria per Utet (pagg. 272, euro 18). Per scriverlo, Oltermann ha trascorso cinque anni a scartabellare negli archivi della Stasi e parlato con alcuni dei frequentatori del circolo. Nel volume si possono leggere anche alcuni dei loro versi.
Philip Oltermann, dove li ha trovati?
«In una ristampa di una piccola Antologia del 1984, un libretto rosso con la sovracopertina gialla. La Stasi prendeva la poesia molto sul serio».
Perché decise di istituire un circolo?
«Non ci sono documenti che lo spieghino, ma io ho trovato tre risposte possibili. La prima, la più innocente, è il fatto che istituire un circolo di poesia al lavoro fosse una cosa molto comune, nella Ddr. Così, nel ’62-’63, iniziarono le prime serate liriche della Stasi, dapprima in modo irregolare; poi, nel 1982, l’organizzazione divenne più professionale, con incontri mensili di due ore ciascuno e un poeta come insegnante».
Perché?
«Perché la Stasi era scontenta della qualità della poesia prodotta fino ad allora. Il secondo motivo, più sinistro, è che la Stasi cresceva in modo impressionante, a un ritmo molto più elevato delle altre polizie segrete dell’Est Europa, ed era estremamente paranoica, anche nel controllare sé stessa: perciò il circolo era un modo per indagare sui propri membri, in un momento in cui potevano lasciarsi andare o esprimere dei dubbi».
Un controllo sui controllori?
«La Stasi aveva i suoi informatori, che lavoravano all’esterno. Ma chi fa poesia può essere critico, e allora va controllato... Uwe Berger, l’insegnante, compilava dei resoconti su ciascuno».
E il terzo motivo?
«Il circolo poteva essere anche una specie di campo di addestramento per delle spie speciali, in grado di infiltrarsi negli ambienti letterari e poi di scrivere dei rapporti al riguardo. La Stasi aveva una vera paranoia nei confronti della letteratura, e di quella occidentale in particolare: non capiva che cosa la rendesse così attraente per i giovani e sospettava che, sotto qualsiasi opera della creatività, si nascondesse una cospirazione del nemico».
E queste spie operarono davvero?
«Effettivamente, molti dei poeti del circolo diventarono degli informatori nel mondo letterario underground di Berlino Est e di Lipsia. Uno di loro fu Alexander Ruika, il quale però, poi, divenne una voce critica».
Fece emergere il paradosso dell’idea stessa?
«L’idea era del tutto paradossale, eppure connaturata al regime, per il quale la poesia e l’arte in generale erano delle armi, erano propaganda. Ma nella nascita stessa della Ddr c’è un paradosso: la convinzione di fondare uno Stato diverso, che rispetti la cultura e le attribuisca lo stesso peso della politica...»
Che poesie si scrivevano al circolo?
«Quelle di Uwe Berger colpiscono perché sono prive di metafore e fatte di descrizioni. L’idea di Berger era che il cittadino indossasse la sua fede politica sopra i vestiti, che fosse completamente trasparente».
Che altro si faceva?
«Si leggevano i versi composti, si discutevano, si curavano gli aspetti tecnici e di contenuto».
C’era anche un ribelle.
«Gerd Knauer. Nell’Antologia sono rimasto sorpreso di trovare i suoi versi critici: in una poesia mette in luce il paradosso di lavorare per un esercito il cui scopo sia mantenere la pace; in un’altra arriva a imputare la guerra nucleare a Marx... Era davvero controverso».
Considerato che la Ddr aveva creato un «dizionario politico» ad hoc...
«Lo Stato cercava sempre dei modi per controllare il linguaggio; uno di questi fu un Lessico, in cui si trovano definizioni come quella del Muro: barriera antifascista. La relazione con il linguaggio divide ancora oggi l’Est, abituato a un controllo stretto, e l’Ovest della Germania, che ha un rapporto più rilassato, di stampo anglosassone».
Dove si vede questa divisione?
«Per esempio, nell’Est c’è più resistenza al dibattito sulle modifiche antipregiudizio del linguaggio, perché sono passati attraverso l’esperienza di una politica che vuole dettarti le parole e importi come devi scrivere. Così come c’è una sfiducia nei confronti dei media, legata allo scetticismo nei confronti della parola scritta».
La poesia fu davvero un’arma durante la Guerra fredda?
«È un po’ una provocazione del libro, però era, anche, la retorica della Stasi, il suo linguaggio».
Ha fallito?
«Direi di sì. Questo circolo non ha prodotto armi o portato ai risultati che i vertici speravano: più duramente si cerca di reprimere la cultura, più se ne perde il controllo».
La censura della Ddr era celebre.
«Sì, ma gli scrittori erano diventati estremamente creativi nell’aggirarla. A volte la letteratura era così criptica, con talmente tanti strati di significato e riferimenti, che i censori si innervosivano: sapevano che c’era qualcosa sotto la superficie che non capivano, ma rimanevano intrappolati nel senso di essa».
La poesia ha sconfitto la Stasi?
«In qualche modo sì, l’ha sconfitta. Perché è troppo difficile da controllare».