Avvenire, 12 aprile 2022
Morire in Ucraina per un pacchetto di sigarette
Un padre è stato finito perché non aveva sigarette da offrire agli occupanti. Per eliminare Valeryi e la moglie Nataliya hanno impiegato sette colpi: sei per lui, uno per lei. Erano andati in strada a dare un’occhiata. Non sono più tornati nella cantina dove li attendeva la figlia di 18 anni. A Hostomel il sindaco è stato centrato dai cecchini perché distribuiva cibo e farmaci nei rifugi sotterranei. A mano a mano che le forze d’occupazione russa arretrano, è possibile raccogliere le prove dei brutali crimini di guerra. «Nelle ultime settimane, abbiamo raccolto prove che le forze russe hanno commesso esecuzioni extragiudiziali e altri omicidi illegali, che devono essere indagati come probabili crimini di guerra», ha affermato Agnès Callamard, segretario generale di Amnesty International. «Le testimonianze mostrano che civili disarmati in Ucraina vengono uccisi nelle loro case e lungo le strade in atti di indicibile crudeltà e scioccante brutalità». «Mio padre aveva sei grandi buchi nella schiena». Lo ha raccontato Kateryna Tkachova, 18 anni. Il 3 marzo era a casa nel villaggio di Vorzel insieme ai suoi genitori, quando diversi carri armati contrassegnati con la lettera ’Z’ hanno occupato le strade. I suoi genitori, Nataliya e Valeryi, hanno lasciato la cantina dove si nascondevano per andare in strada. Prima però hanno detto a Katerina di non muoversi. Da li sotto ha sentito degli spari. «Una volta che i carri armati sono passati, sono saltata oltre la recinzione fino alla casa del vicino. Volevo controllare se erano vivi. Ho guardato oltre il recinto e ho visto mia madre sdraiata supina su un lato della strada, e mio padre era a faccia in giù dall’altro. Ho visto grandi buchi nel suo cappotto». L’occupazione armata gli ha impedito di avvicinarsi. «Il giorno sono tornata: mio padre aveva sei grossi buchi sulla schiena, mia madre un foro più piccolo nel petto». L’uccisione intenzionale di civili disarmati «è una violazione dei diritti umani e un crimine di guerra. Queste morti – insiste Amnesty – devono essere indagate a fondo e i responsabili devono essere perseguiti, compresa la catena di comando». La geografia dei crimini segue a ritroso il tracciato dell’iniziale avanzata russa. Sono state ottenute prove di uccisioni indiscriminate anche a Charkiv e nell’oblast (regione) di Sumy. Fra l’altro è stato documentato un attacco aereo che ha ucciso persone in fila per ricevere del cibo a Chernihiv, mentre si moltiplicano i riscontri sui massacri a Izyum e Mariupol. «Mio marito non è morto subito. Dalle 21,30 alle 4 del mattino respirava ancora, anche se non era cosciente. L’ho implorato: “Se puoi sentirmi, per favore muovi il dito”. Non lo ha mosso, ma ho messo la sua mano sul mio ginocchio e l’ho stretto. Il sangue scorreva. Quando ha esalato l’ultimo respiro, mi sono rivolta a mia figlia e gli ho detto: ’Sembra che papà sia morto’». Trucidato per aver rifiutato un pacchetto di sigarette che non aveva. La moglie, 46 anni, ha raccontato che le forze russe hanno assediato il villaggio di Bohdanivka a partire dalla notte tra il 7 e l’8 marzo. Il giorno dopo, la famiglia – marito, moglie, suocera, e la figlia di 10 anni – ha sentito sparare dalle finestre del piano di sotto. Lei e il marito hanno gridato in russo: “Siamo civili, siamo disarmati”. A quel punto due militari hanno rinchiuso tutti al piano di sotto, nel vano caldaia: “Ci hanno costretto a entrare e hanno sbattuto la porta. Dopo appena un minuto hanno riaperto la porta – ha raccontato la donna ad Amnesty International –, e hanno chiesto a mio marito se avesse delle sigarette. Ha detto di no, non fumava da un paio di settimane». Non era la risposta che la soldataglia voleva sentire. Prima gli hanno sparato al braccio destro. Poi l’altro soldato ha ordinato: «Finiscilo». E gli hanno sparato alla testa. Quella notte un vicino di casa ha assistito all’irruzione e ha confermato di aver visto il corpo dell’uomo accasciato in un angolo del locale caldaia. La donna e il bambino di 10 anni sono fuggiti dal villaggio quello stesso giorno. Durante i primi giorni dell’occupazione russa di Hostomel, devastata per la vicinanza con l’aeroporto militare di Kiev, Taras Kuzmak consegnava in auto cibo e medicinali nei rifugi antiaerei dove nascondevano i civili. Li hanno bersagliati per questo. Alle 13.30 del 3 marzo, Taras era con il sindaco Yuryi Prylypko e altri due uomini, quando la loro auto è stata colpita da colpi di arma da fuoco sparati con precisione da un grande complesso residenziale che era stato sequestrato dalle forze russe.
Hanno cercato di saltare fuori dall’auto, ma uno di loro, Ivan Zorya, è stato ucciso immediatamente, mentre il sindaco Yuryi Prylypko è caduto a terra ferito. Taras Kuzmak e l’altro sopravvissuto si sono nascosti dietro un escavatore per ore mentre il tiro dei cecchini continuava. «Ci hanno notato e hanno immediatamente aperto il fuoco, non c’è stato alcun avvertimento», ha raccontato Tara. «Potevo solo sentire il sindaco Prylypko. Sapevo che era ferito, ma non riuscivo a vederlo e non sapevo se il colpo sarebbe stato fatale o meno. Gli ho solo detto di rimanere immobile, di non fare alcuna mossa». Sono rimasti accucciati per quasi due ore. Intorno alle 15 hanno sparato di nuovo nella loro direzione “e circa mezz’ora dopo ho capito che il sindaco era morto”. La testa di Ivan Zorya è stata spazzata via dai proiettili.