La Stampa, 12 aprile 2022
È sbagliato commemorare gli alpini il 26 gennaio
Istituire una giornata della memoria dedicata al sacrificio degli alpini è iniziativa lodevole: in un Paese dove la liturgia civile abbonda di scadenze, gli alpini più di altri la meritano per ciò che hanno rappresentato nella storia d’Italia, per i prezzi umani che hanno pagato nelle due guerre mondiali e per la capacità con cui ancora oggi, in tempo di eserciti professionali, sono presenti in ogni paese del Nord con l’attivismo sociale dell’Ana e sono in grado di portare in piazza centinaia di migliaia di persone per le adunate annuali. Capisco anche che da ambienti dell’associazionismo alpino sia venuta l’indicazione del 26 gennaio, a ricordo del decisivo scontro di Nikolajewka del 26 gennaio 1943, quando i superstiti del Corpo d’armata alpino riescono ad uscire dalla «sacca del Don» (lasciando sul campo 43.580 uomini, tra morti, dispersi, congelati, feriti, oltre ad alcune migliaia di prigionieri, oltre il 60% degli effettivi).
Nell’immaginario collettivo degli italiani la ritirata di Russia è penetrata come il simbolo della tragedia della Seconda guerra mondiale, veicolata da romanzi di grande successo come Il sergente nella neve o Centomila gavette di ghiaccio; la ritirata è avvenuta nelle temperature polari dell’inverno russo, lunghe file nere di uomini a piedi abbandonati nel bianco del gelo, tra gli attacchi dell’Armata Rossa che colpivano da Nord e da Sud; un’intera generazione di coscritti alpini non è tornata «a baita» (come scriveva Mario Rigoni Stern); alcune vallate del Cuneese si sono addirittura spopolate per effetto di quelle perdite. Di qui l’indicazione del 26 gennaio (anche se l’Ana, l’associazione nazionale alpini, era disponibile a ragionare su altre date).
Detto questo, restano due problemi. Il primo è la concomitanza con il 27 gennaio, giornata della memoria dell’Olocausto. Non penso che nella scelta del 26 gennaio ci sia stato alcun retro pensiero, alcuna volontà di ridimensionare il 27 gennaio con una diversa commemorazione e non condivido la dietrologia di chi indulge a questa interpretazione. Però due date non solo vicine, ma addirittura successive, diventano oggettivamente concorrenziali. Come è possibile nelle scuole (o nei media) parlare in modo esauriente di due avvenimenti a distanza di 24 ore? Si finisce inevitabilmente per operare una scelta, oppure per ridurre il tutto a una veloce commemorazione: le giornate della memoria, invece, devono essere occasione di studio, di riflessione, di approfondimento, non di celebrazioni rituali. Per certi aspetti, sono già troppo vicine il 27 gennaio e il 10 febbraio (giornata del ricordo delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata): figuriamo il 26 e il 27!
Il secondo problema è il riferimento storico. Mi stupisce che nel dibattito parlamentare gli spunti siano stati così scarni. Che cosa facevano gli italiani in Russia nel gennaio 1943? Quale guerra combattevano? Di chi erano alleati? Ci siamo abituati ad una narrazione del passato in cui la (giusta) commozione per le vittime ha fatto dimenticare la conoscenza della storia. Dal 10 giugno del 1940 all’8 settembre 1943 l’Italia fascista ha combattuto una guerra di aggressione contro la Francia, la Grecia, la Jugoslavia, la Russia, in Africa Settentrionale, in Africa Orientale; il Regio Esercito ha combattuto accanto alla Wehrmacht di Hitler per far trionfare un nuovo ordine europeo, nel quale non ci sarebbero più stati i confini tra le nazioni ma le gerarchie tra i popoli (ebrei, rom, «asociali» destinati all’estinzione, slavi e mediterranei al lavoro, ariani al dominio); è una guerra che Mussolini ha dichiarato e che la folla di Piazza Venezia (e di tante piazze d’Italia collegate con gli altoparlanti dell’Eiar) ha salutato con grida di delirio, quando il Duce ha detto «la dichiarazione è già stata presentata agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna»; è una guerra che quegli stessi italiani hanno pagato con i morti, i bombardamenti, la fame, il «pane nero».
Contro l’aggressione nazifascista gli Alleati hanno combattuto una guerra che, non a caso, è stata definita «guerra di civiltà» e che (almeno al mondo occidentale) ha regalato 80 anni di democrazia e di rispetto. Perché una data istituzionale, approvata in Parlamento, deve riferirsi proprio a «quella» guerra fascista 1940-43? In quella guerra gli alpini della sacca del Don sono state vittime del fascismo quanto i russi contro i quali combattevano. Come ha scritto uno storico non certo sospettabile di simpatie militariste come Giorgio Rochat, «penso agli alpini delle mie valli, costretti a fare una guerra che era loro estranea, che condussero con disciplina e a volte con furore. I morti e le devastazioni che lasciarono e gli eccessi che forse commisero vanno addebitati al regime fascista, io non riesco a condannarli».
Nel momento in cui si stabilisce una ricorrenza nazionale, i responsabili politici non possono ignorare il contesto di riferimento. Amaramente, non penso neanche che da parte dei parlamentari ci sia stata malafede: solo (e forse più grave) c’è stata ignoranza della storia nazionale. La memoria del sacrificio degli alpini ha tanti (troppe!) riferimenti: il 1915-18, la battaglia dell’Ortigara, il Monte Grappa, il Pasubio; la campagna di Grecia con il Ponte di Perati e la distruzione della divisione Julia. Oppure avrebbe una data più naturale, equidistante da ogni equivoco: 15 ottobre 1872 (esattamente 150 anni fa), quando il re Vittorio Emanuele II firmò il decreto istitutivo delle prime quindici compagnie alpine.
Stabilire la giornata della memoria degli Alpini esattamente nel giorno del 150° anniversario della loro fondazione sarebbe gesto di rispetto per una storia complessiva e certamente avrebbe carattere unitario. Fatta così, un’iniziativa lodevole, pensata e suggerita dal mondo alpino in perfetta buona fede, rischia di trasformarsi in un’ulteriore occasione di polemiche storiche. Non fa bene agli alpini. Non fa bene alla storia. Non fa bene ad una coscienza nazionale del passato sempre sospesa tra omissioni interessate, narrazioni sospette e appropriazioni ideologiche indebite.