La Stampa, 12 aprile 2022
L’assurda passeggiata Johnson-Zelensky
In un mese abbiamo visto e sentito tanto, troppo. Il fango e la crudeltà della guerra, migliaia di caduti, invano perché non si intravedono soluzioni, le torture e le bugie, a pioggia, a raffica, elementari e futuriste, di facile consumo e impenetrabili, una propaganda da circo. Abbiamo capito, con la vista resa forse più acuta dall’orrore, che per l’ennesima volta per il Potere l’uomo è solo un chiodino, una vite, un mezzo meccanico, universale e di facile uso, che per di più costa pochissimo.
Sarà per questo che nascono i dubbi: più attaccaticci delle zanzare. I dubbi sull’attività funesta di quelli che un tempo si chiamavano guerrafondai, militaristi, falchi, i gradassi che cercano di trasformare anche le guerre necessarie per resistere ai prepotenti in esaltanti cavalcate delle walkirie, in soluzioni finali, in regolamenti di conti senza appello, in ordalie che possono diventare infinite. Quelli pericolosi tra loro sono i leader politici e i militari. Perché considerano ogni avvenimento, qualunque esso sia, come una occasione. Spesso, purtroppo, sono ben distribuiti nei due campi.
Per questo mi hanno colpito la immagini di una recente passeggiata, che ha sfiorato l’Assurdo, per le vie di Kiev; città appena svincolatasi, a caro prezzo, dall’essere trincea, prima linea. Ne senti il silenzio, Kiev sembra imbalsamata. I due passeggiatori: un individuo corpulento, evidentemente fuori forma, ma in elegante giacca e cravatta come per un consiglio di amministrazione o un appuntamento dal notaio, e un altro, asciutto, in abbigliamento militare, ma un po’ "casual". Camminano di buon passo parlando fitto, il signore sovrappeso molto infervorato, gesticolante. Quello in mimetica sembra ascoltarlo con prudenza, quasi per educazione, leggermente perplesso.
Alle loro spalle una città disegnata da De Chirico, deserta, vagamente spettrale, dalle strade interminabili. Ha un bel brillare nell’eleganza dei suoi edifici neoclassici. Si sente l’oppressione e la fragilità dell’ora. Li seguono energumeni armati fino ai denti, al progredire della strana coppia si muovono come lucertole svegliate dall’avvicinarsi degli uomini. Puntano i fucili verso gli angoli come se dovesse spuntare ad ogni momento un carro armato o un manipolo di kamikaze; guizzano, spariscono, ricompaiono.
I due passeggiatori erano il premier inglese Boris Johnson e il presidente ucraino Zelensky. L’erede di un impero defunto, il leader di una isola che alimenta la economia facendo ponti d’oro agli oligarchi di tutti i continenti senza guardar troppo per il sottile, illustrava al leader che si difende con gran successo dall’aggressione russa, le meraviglie che si potevano estrarre dalla sua prossima donazione: un mastodontico carico di armi britanniche dell’ultima generazione, le armi non più per la resistenza eroica ma per la vittoria finale.
Johnson fin dall’inizio del conflitto si è ritagliato una parte nel copione: essere sempre davanti a tutti nella coalizione occidentale, anzi distanziarla nel trincerismo. Quelli da cui ci tiene di più a distinguersi sono gli europei, i soliti tentennoni, i "sì ma" a cui John Bull deve dare come sempre la sveglia a pedate. Preferirebbe non averli di nuovo accanto questi relitti della Brexit, per marciare su Mosca nel ruolo di avanguardia della guerra totale gli bastano sul continente i fidi polacchi che han tirato fuori dal museo Pilsudski. E naturalmente gli americani.
Lui prepara il terreno agli americani come è tradizione del Regno Unito dalla crisi di Suez del 1956, ultimo rantolo imperiale e avvio dell’era meno scintillante di maggiordomo fidato dei cugini anglosassoni. Ufficio a cui si sono dedicati, per necessità si intende, anche altri leader britannici come Blair nella sciagurata guerra del Golfo.
Qualche volta Johnson sembra sopravanzare nella ossessione della guerra a oltranza persino il ben più giustificato Zelensky. L’inglese parla solo di guerra, la vuole a ogni costo, grande, rumorosa, invadente, stravincente. Fermare l’invasore non gli basta. Esige entusiasmo, la vittoria con grida. Putin per il primo ministro è già isolato, cancellato dalla geopolitica del globo. Un colpetto e...Zelensky invece ogni tanto fa riferimenti cauti ma giudiziosi e tenaci alla necessità di arrivare, prima o poi, ristabilita la situazione militare, a una discussione con Putin sul dopo. Parrebbe di scorgervi l’omeopatico tentativo di convincere i suoi clan, anche i più oltranzisti, quelli che, a questo punto, esigono niente di meno che la vittoria, sulla necessità di una coesistenza.
Johnson sa di non poter essere, con il made in England così striminzito, il nuovo Churchill, come ambirebbe la sua vanità. Si contenta di metter la divisa addosso a un altro, a Zelensky, ne disegna le somiglianze con il leone britannico che fermò Hitler, gli chiede di ruggire, vuole essere il suo suggeritore e regista.
Johnson non è solo. È il capofila nello schieramento occidentale degli entusiasti della guerra, di quelli che intravedono la possibilità, constatato il marciume dell’esercito putiniano affondato nella fanghiglia ucraina, di marciare su Mosca. Per andare ad arrestare Putin e i gerarchi: una ripetizione europea della marcia su Baghdad nella seconda guerra del Golfo. Con annessa instaurazione di una democrazia da esportazione, e il processo ai criminali di guerra, organizzato, si spera, un po’ meglio di quello sgangherato a Saddam Hussein. Il precedente indurrebbe ad esser cauti. Ma l’autentico nerbo motore di queste grandiose mobilitazioni belliche, il nucleo inamovibile, è sempre l’ambizione. Non il timore del pericolo preciso di cui si possono soppesare i rischi e le possibilità di frenarlo in altro modo.
Fantasie a Downing street? Ci sono leader che hanno sempre più la febbre della guerra. È una malattia contagiosa. Ubriaca a poco a poco. Vogliono con il dogma dell’avanzata produrre credenze egemoni. Sopprimere il male. Con l’unico metodo che trionfando lo abolisce. Quaranta giorni fa dopo l’attacco di Putin, chi si illudeva che non esistesse la possibilità di sviluppi pericolosi? Ma ancor meno si pensava fossero così vasti e profondi. Forse Putin si proponeva di accendere un fuoco e invece ha suscitato un incendio. Ha creduto di risolvere una delle questioni e invece ha offerto agli altri la possibilità di tirar fuori e di risolverle tutte. Anche quella della sua ventennale presenza al potere. Era certo che il mondo si stesse abituando alla sua presenza, anzi non ne potesse fare a meno. Tutti si rivolgevano a lui, il diavolo. Una conferenza sugli equilibri del mondo senza il diavolo infatti perderebbe molto. Forse ha scoperto che il diavolo non è mai solo.