Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 12 Martedì calendario

Quando la Stasi scoprì la poesia

Come se la pietra e il cemento fossero la vera anima della città del Muro, l’ultimo mistero della Stasi – la più potente polizia segreta d’Europa – è custodito dietro la fortificazione del complesso militare di Adlershof, cancellato dalle piantine della città ma incombente sulla vita quotidiana dei berlinesi come il totem del controllo supremo, visto che le sue caserme erano la sede del Wachregiment intitolato a Feliks Dzerzinskij, il fondatore della Ceka, la madre sovietica di tutti i servizi di spionaggio dei Paesi comunisti. Qui, tra gli uomini in divisa con le mostrine bordeaux e gli abiti grigi degli agenti in borghese, davanti ai ritratti di Vladimir Lenin e di Erich Honecker per quasi trent’anni andava in scena una volta al mese il rito misterico di una serata di poesia.
Bisogna aprire la doppia porta a vetri al primo piano, nel libro di Philip Oltermann che ha ricostruito l’intera vicenda, passare sul pavimento di legno sovietico dell’atrio con l’odore di cera fresca, aspettare che un ufficiale spezzi il sigillo di stucco col simbolo del reggimento per entrare in un rito iniziatico riservato, dove si parla di giambi, sonetti e metafore nella casa delle spie. Sotto la caserma, nel lungo scantinato sono pronti sugli scaffali i proiettili per i kalashnikov, le bombe a mano, i lanciagranate portatili, dodici mitragliatrici pesanti, le carabine semiautomatiche, le pistole Makarova e Stechin e anche le sciabole da ufficiale. Nel salone delle riunioni, invece, si studia l’epica, la metrica, le terzine, il rondel e la villanella, poi ognuno dei cekisti iscritto al Circolo di poesia della Stasi legge i suoi ultimi componimenti, davanti a tutti. La grazia e la disgrazia si cercano, si respingono e si accompagnano nelle stanze del battaglione militare in un connubio impensabile, un concerto di opposti che attraversa la guerra fredda. E tutto questo in un Paese che in quegli anni poteva contare su 110 mila funzionari-agenti e soprattutto su 190 mila “Inoffizielle Mitarbeiter”, gli “IM”, informatori non ufficiali, uomini e donne civili trasformati al bisogno in delatori, cospiratori, basisti e infiltrati per pedinare, intercettare e ricattare 16 milioni e mezzo di abitanti nel sogno titanico della sorveglianza totale, con un agente – professionale o casuale – ogni 50 persone.
Cosa cercava la Stasi dentro quei versi? In parte la poesia era il punto d’arrivo di una fascinazione e di un’ambizione tedesca e comunista: la ricostruzione della Germania, dopo il disprezzo nazista per gli intellettuali, doveva partire dalla cultura. In modo da creare una vera e propria “società della letteratura”, come teorizzava il poeta bavarese Johannes Becher, nuovo ministro della Cultura appena rientrato nel 1945 a Berlino dai dodici anni di esilio in Russia. Le condizioni erano propizie, se è vera la teoria di George Steiner secondo cui a Est si riscontrava un rapporto più profondo, quasi religioso, con la parola scritta nei libri. Becher andava oltre. Per lui la poesia «è la definizione stessa di tutto ciò che è buono e bello, un eterno autotrascendersi». E il sonetto è la forma perfetta di poesia, anzi nel suo muoversi da una tesi per passare a un’antitesi e giungere a una sintesi, rispecchia addirittura «la visione marxista del progresso storico». Per i poeti, dunque, favori e privilegi come le “pajok”, razioni extra di carne, patate e zucchero, imposte più basse, pensione e tessera per i negozi speciali. La Sed, il partito guida, rilancia con lo slogan di Ulbricht nel ’59: «Compagno, prendi la penna, perché la cultura socialista habisogno di te».
Obbedienti, i compagni del Circolo della Stasi ci provano: ma scrivono da cekisti. Con qualche sorpresa del coordinatore Uwe Berger, poeta professionista mediocre ma pluridecorato, i versi degli gli agenti segreti più giovani parlano d’amore più che di politica: «Se un bacio mi premia/ caporale d’amore/ pazientemente attendo/ la promozione a generale». «Ti voglio/ tutta per me/ e mi auguro che tu/ non mi venga mai espropriata». Poi capiscono che la buona poesia attraverso le emozioni deve fomentare la lotta di classe. Arrivano componimenti come «Gratitudine verso il soldato sovietico», o «La cavalleria rossa», che si lancia «tra lo scalpitar di zoccoli/ in una nuvola furente/ di tuono foriera», mentre il poeta diciannovenne sente la Nagant appesa alla cintura «e il grido avanti!/ cui la voce mia/ s’unisce». La poesia come arma ideologica, dunque. Ma anche come rivelazione spontanea. Berger, il coordinatore, comincia a far rapporto ai suoi superiori quando legge versi ambigui come «Stiamo in guardia/ giudichiamo, condanniamo/ e perdoniamo./ Siamo un’istituzione». E segnala immediatamente versi sciolti sospetti: «Ordine e felicità/ si escludono a vicenda». O lo sfogo di un soldato: «Per la miseria/ ora voglio andare in moto». Oppure un dubbio: «Cos’è che mi disturba?/ Perché mi ribello»?
Il coordinatore del Circolo di poesia si scopre rapidamente controllore, per poi diventare informatore. Leggendo i manoscritti non recensisce la qualità artistica dell’opera, ma la mente dell’autore: “nichilista”, “cinico”, “pigro”, “freddo”, “scettico”, “criptofascista”. La funzione della poesia diventa così quella di «lucidare i cristalli più opachi» dell’organizzazione e coltivare «l’amor di patria, l’ardore, l’ottimismo, l’amicizia con l’Urss» oltre a «intensificare l’odio verso i nemici della pace e del socialismo»: ricordando sempre che i cittadini vanno divisi in quattro categorie, gli ostili, i potenziali nemici, i titubanti, i fedeli. E poiché la poesia è espressione del vero io del poeta, «lo spontaneo straripamento di potenti sensazioni », i versi vanno indagati come un’inconsapevole confessione.
E qui, l’ipnosi poliziesca della Stasi per la cultura diventa ossessione: due istituti accademici a Potsdam avvertono che gli intellettuali sono più vulnerabili agli influssi occidentali e possono facilmente diventare «moltiplicatori ideologici» del capitalismo. La poesia sale in cima ai sospetti, nel timore che lo spionaggio dell’Ovest usi i versi per minare il morale della Ddr, o nella paura metafisica che nelle rime si nasconda l’algoritmo sovversivo occidentale, anche se non si vede a occhio nudo. I censori sono spronati a leggere attentamente i versi per cercare appunto quelli che vengono chiamati in gergo gli “elefanti bianchi” o i “cani di porcellana”. Ma intanto solo dopo la pubblicazione di una poesia di 62 versi firmata da Uwe Kobe e apparentemente innocua, il potere si accorge che se si leggono di seguito le iniziali di ogni parola compare questo messaggio incredibile: «I vostri criteri sono miseri/ le vostre richieste adatte ai leccapiedi/ la vostra bandiera, un tempo rosso sangue/ si gonfia flaccida/ alle vittime dedico un orgasmo/ possa la rivoluzione quotidiana/ fare a pezzi voi decrepiti potenti». Scatta l’allarme per la guerra fredda culturale, armata di «allegorie, metafore, favole, effetti di straniamento sediziosi».
Per purificare il linguaggio si prova a cristallizzare il significato corretto della parole nel Piccolo dizionario politico che definisce il Muro «barriera di protezione antifascista», spiega che l’“opposizione” non può esistere nella Ddr «perché non ha alcuna base oggettiva». Ma tutto sta precipitando alla periferia dell’impero, finché col Muro crolla la pietra angolare dell’intero sistema. Nei palazzi della Stasi, l’ultimo gesto è la distruzione delle parole del potere divenute colpevoli, con le macchine tritacarte che lavorano giorno e notte a ingoiare i dossier spionistici che adesso fanno paura a chi li ha scritti. Anche gli ufficiali del Circolo della Stasi sono alla finestra, ormai, e vedono i cittadini che si affollano guardando in su, e adesso salgono le scale. Si barricano negli uffici, spengono le luci. Scenderanno dalle scale di servizio, passando per l’ultima volta davanti alla gigantografia dell’antenato Dzerzinskij e alla bacheca dov’erano esposte tra dipinti e sculture dei cekisti anche le poesie del Circolo della Stasi: nell’illusione che una metrica regolare e un buon ritmo delle rime avrebbe garantito il controllo dell’intero Paese.