Il Messaggero, 11 aprile 2022
La questione dei documenti in Giappone
La stragrande maggioranza degli stranieri che visita (va) il Giappone che speriamo riapra presto, anche nel suo interesse, le porte al turismo- riporta sicuramente una impressione positiva. Paese sicuro, popolazione onesta ed educata, servizi impeccabili, polizia gentile ed efficiente. Sono molti quelli che tornano raccontando di come, spesso nel giro di poche ore, vengono contattati proprio dalla polizia, che ha ritrovato i loro oggetti smarriti. Ma non tutto è oro ciò che luccica. Secondo l’Associazione Nazionale Forense, che da anni si batte per migliorare il sistema giudiziario e limitare gli enormi poteri discrezionali della polizia (un dato per tutti: in Giappone il fermo di polizia, che prevede cella di isolamento ed interrogatori non stop senza la presenza dei difensori, può durare fino a 23 giorni, rinnovabili e per singolo addebito), oltre la metà della popolazione straniera residente in Giappone, circa 3 milioni di persone, è stata fermata per controlli almeno una volta. E più del 30%, uno su tre quindi, più di 5 volte. La percentuale aumenta enormemente se entriamo nella classifica per nazionalità, leggi colore, razza. Un bianco viene fermato meno della metà delle volte di uno straniero colorato, mentre i più perseguitati in assoluto sono i cosiddetti sangokujin (stranieri di paesi terzi, termine derogatorio con cui si indicano i cittadini del sud est asiatico, mentre cinesi e coreani vengono chiamati con altri, specifici appellativi).
La legge giapponese sul tema è molto chiara. La polizia, che è disarmata, ha il diritto di fermare per accertamenti solo chi sta commettendo un crimine o si ritiene l’abbia appena commesso. Non è previsto insomma il famoso normale controllo, presente in molti paesi occidentali, Italia compresa. E del resto sarebbe molto difficile effettuarlo, visto che in Giappone non esiste un documento di identità obbligatorio. Certo, esistono patente, passaporto, tessera sanitaria. Ma nessuno di questi documenti è obbligatorio: le proprie generalità, quanto richiesto, si dichiarano a voce, si scrivono a penna o a matita per esempio quando si va in albergo al massimo si affidano all’immancabile biglietto da visita, che chiunque può stampare nel giro di pochi minuti in qualsiasi cartoleria, o persino alle macchinette automatiche. È uno dei motivi per cui in Giappone ci sono oltre 3 milioni, più o meno come l’intera popolazione straniera, di johatsusha, i cosiddetti evaporati. Gente che per vari motivi quasi sempre problemi di debiti sparisce, senza dare più traccia di sé. Alcuni finiscono per suicidarsi, ma la maggior parte riemerge da qualche altra parte del paese, inventandosi una nuova identità. Se non si commettono reati, e non si ha bisogno di guidare o andare all’estero, la seconda o anche terza identità può funzionare. In Giappone per ottenere un lavoro par time non occorre presentare una particolare documentazione, basta un biglietto da visita, un indirizzo anche temporaneo. Uno passa davanti ad un bar, una pompa di benzina, un supermercato, e se vede un cartello assumiamo basta che chieda. Lo assumono subito. Non serve neanche il conto in banca: i salari vengono pagati in cash, quotidianamente o settimanalmente.
Diverso è il discorso per gli stranieri. I gaijin, uomini di fuori. Per loro la legge prevede l’obbligo di circolare sempre con un documento d’identità: passaporto per i turisti, zairyu card, una specie carta d’identità che vale anche come permesso di soggiorno, per tutti coloro che in Giappone ci vivono. Ed è vero che vengono spesso perseguitati da lunghi, inutili e illegali controlli. «La polizia può chiedere i documenti, questo sì spiega Mami Nakano, avvocato ma se sono in regola non può assolutamente fare altre domande e tanto meno chiedere al fermato di accompagnarli presso il koban più vicino, sorta di piccoli commissariati di quartiere che sorgono un po’ ovunque. Il problema – spiega ancora l’avvocato Nakano – è che se lo straniero non collabora la polizia può interpretare questo suo atteggiamento come sospettoso, e insiste ancora di più. Ma se a propria volta si insiste, mostrando di conoscere i propri diritti, alla fine la polizia lascia perdere». È successo ad un mio amico francese, qualche tempo fa. Lo fermano di notte, in bicicletta, altro gesto abbastanza ricorrente. Lui ha tutto in regola, documenti suoi, della bicicletta (in Giappone debbono essere registrate: il furto di biciclette è uno dei reati più diffusi ed è severamente punito) e non ha un atteggiamento sospetto. È francese serie A, nel gaijinometro in giacca e cravatta, non ha bevuto. Ma i due poliziotti lo pregano gentilmente di accompagnarli comunque al koban. Lui ci va, e comincia quella che lui stesso definisce una esilarante conversazione. In inglese, lingua che né i poliziotti né lui parlano bene. «Alla fine mi sono messo a parlare in giapponese, e loro mi hanno guardato, sorpresi e delusi: speravano di fare un po’ di pratica di inglese. Quando hanno capito che parlavo il giapponese mi hanno liquidato in un attimo». Al mio amico è andata così. Ad altri, i gaijin di serie B, C e non classificati, spesso va peggio. Molto peggio. Una ragazza pakistana, che era appena stata picchiata in pubblico dall’ex marito giapponese si era messa ad urlare. La polizia è arrivata, l’ha portata nel koban e dopo 6 ore di interrogatorio l’ha arrestata per schiamazzi. Salvo poi accorgersi che il permesso di soggiorno era scaduto: nel giro di pochi giorni è stata rimpatriata.