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 2022  aprile 11 Lunedì calendario

Ci servono aziende molto più grandi

Nelle difficoltà diamo il meglio di noi stessi. Ricordiamocelo. Questo articolo — o se volete appello — ha una sola, apparentemente modesta, finalità: suscitare una presa di coscienza collettiva. Il drammatico tornante della Storia che stiamo vivendo — la guerra dopo la pandemia — ci può e ci deve vedere tra i protagonisti del cambiamento. Sì, tra i protagonisti. Un’opportunità, se ben colta, superiore ai rischi, che sono tanti, tantissimi. A patto però che ci si liberi di una sindrome vittimistica, di un istinto declinista, di una propensione a rassegnarsi. E che non si cada nella trappola di credere che la risposta debba essere necessariamente ed esclusivamente pubblica. A debito. Siamo i più colpiti dalla crisi energetica ma nella condizione di poter accelerare, meglio di altri, sulle rinnovabili e sull’economia circolare, nella quale siamo già tra i primi. Uno dei pochi vantaggi competitivi che abbiamo sulla Germania, il Paese più investito dagli effetti della guerra in Ucraina.

Il meccanismo
La deglobalizzazione in atto, che presumibilmente sarà ancora più accentuata in futuro, sconvolge le catene del valore. E le accorcia. In alcune filiere molte imprese ne hanno già approfittato. In diversi settori, la flessibilità delle aziende italiane, la loro capacità di adattamento, lo scatto d’inventiva degli imprenditori si sono già trasformati in occasioni di crescita. Gli energivori soffrono di più, in misura schiacciante. Il rincaro delle materie prime minaccia l’esistenza di molti operatori. Si lotta per sopravvivere. Ma lo si può fare in due modi: in preda a un fatalismo desideroso di provvidenze o nella tenace caparbietà di chi non rinuncia a innovare e a crederci. Per favore non illudiamo i primi e sosteniamo i secondi. Cerchiamo di vivere l’emergenza come uno stress competitivo, una prova di maturità imprenditoriale.

Certo, se le organizzazioni datoriali si muovono solo in una logica sindacale, di piccolo cabotaggio degli interessi immediati, non andiamo da nessuna parte. Non è il momento di ritirarsi, di trasformarsi in rentier nostalgici di un passato cui si devono patrimoni ingenti. È il momento di rischiare, investire, mettersi insieme, assumere. Non di rifugiarsi in comodi family offices che sono, sul versante dell’attività economica, l’equivalente della teoria geopolitica americana del leading from behind. La guerra la si fa per procura. Altri si sporcano le mani e perdono la vita. I veri imprenditori stanno al fronte. E trasmettono alle prossime generazioni il gusto del rischio, non la paura di affrontarlo. È in gioco il destino del loro Paese, il suo ruolo in Europa e nel mondo.

La tenuta del nostro sistema produttivo è stata messa a dura, durissima prova. La moratoria sui debiti, le garanzie sui prestiti, i ristori hanno costituito un necessario argine alla crisi. Un cordone sanitario di emergenza destinato inevitabilmente ad esaurirsi. Prima che ciò inevitabilmente accada, appare indispensabile rinserrare le fila. E prepararci alla competizione in mare aperto che, ripetiamo, potrà vederci tra i protagonisti. Sono tre i grandi filoni strategici: dimensione, sostenibilità e grado di apertura.

Nella classifica Fortune 500 del 2021, l’Italia ha in classifica solo 6 aziende, di cui una metà intermediari finanziari (Eni, Enel e Poste). Nel 2011 ne avevamo 10. La Germania oggi ne ha 27, la Francia 26. Anche la Spagna è davanti a noi con 9 gruppi. Negli ultimi vent’anni, oltre alla crescita prepotente e inarrestabile della Cina, e a un aggiustamento inevitabile delle posizioni relative, solo il 50 per cento delle aziende presenti in classifica nel 2001 vi compare ancora. E di queste, il 90 per cento ha fatto sistematicamente ricorso a operazioni di merger and acquisition.

Il limite
L’Italia non solo ha perso posizioni ma non è stata capace di proporre un nuovo nome, un nuovo polo, una nuova aggregazione. Con l’eccezione degli intermediari finanziari. Un dato su cui riflettere quando pensiamo al futuro industriale del nostro Paese. Sul primo filone, quello delle dimensioni, la palla è in mano a diversi attori. E qui il ruolo del governo è fondamentale. E non solo attraverso le imprese partecipate dallo Stato. C’è una funzione di moral suasion che un esecutivo con un profilo tecnico così elevato può e deve esercitare. Per esempio nella battaglia, da un sapore tutto italiano, intorno alle Generali. Non è una questione che riguarda solo i due schieramenti. Il mercato decide, per carità.

Ma in qualsiasi altro Paese vi sarebbe un’attenzione maggiore nel promuovere la crescita di un gestore (privato) del risparmio italiano, con una dimensione e una proiezione veramente globali. O perdiamo posizioni o arriviamo a cedere anche l’ultimo grande patrimonio di cui disponiamo a gruppi stranieri. Altri esempi. La crescita dei costi e il fenomeno inflativo rendono sempre meno sopportabile, non solo in termini economici, la sovrapposizione fra Tim e Open Fiber. E ancora più urgente strappare l’incumbent dal suo destino pericolosamente simile a quello dell’Alitalia.

Si studia opportunamente l’integrazione tra Snam e Terna e tra Leonardo e Fincantieri, ma una stagione di fusioni è resa urgente in tante filiere del made in Italy, nell’alimentare per esempio in modo da diminuire l’impatto dell’esplosione dei prezzi delle materie prime agricole. Sapranno le tante famiglie imprenditoriali italiane cogliere la sfida della dimensione? La bassa capitalizzazione, attenuata in parte negli ultimi due anni dall’intervento pubblico, non è più solo un limite. È quasi una condanna. Abbiamo bisogno di scala e di maggiore fame di crescita. Per quattro ragioni. La prima è legata alla capacità di perseguire obiettivi di sostenibilità, al di là del fatto che più si è grandi, più si innova e si creano occupazione e welfare. Il rispetto dei fattori Esg (Environmental, social and governance) richiede la mobilitazione di risorse finanziarie che sono disponibili solo oltre una certa soglia dimensionale. E non soltanto perché si creano più occupazione e welfare. La seconda ragione è legata agli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione, indispensabili per aumentare il vantaggio competitivo delle aziende e del Paese. Terzo tema è quello dei talenti, della loro attrazione e formazione. Quarto punto, ma non ultimo, riguarda la gestione del rischio, ovviamente cresciuta esponenzialmente per la pandemia e la guerra.

La diversificazione
Portafogli di prodotti diversificati e un’ampia localizzazione geografica delle attività consentono di fronteggiare, al di là delle condizioni specifiche del proprio business, l’emergere di rischi estremi che possono mettere in pericolo la vita aziendale. Tutto ciò non vuol dire che non vi è futuro per la piccola dimensione. No. In certi settori vi sono nicchie interessanti e una miriade di opportunità dischiuse dalla digitalizzazione. La grande dimensione non è contro le Pmi. Tutt’altro. Ne favorisce la creazione, ne agevola la crescita. Il circuito è virtuoso. La sostenibilità poi non può essere solo un’etichetta. La guerra ha cambiato la struttura e la percezione pubblica dei già citati fattori Esg. In primo luogo sull’eticità delle relazioni commerciali con i Paesi non democratici.

Il limite si è spostato. Ma di quanto? E con quali costi? Il grado di apertura di un’impresa, terzo filone, è condizione irrinunciabile per perseguire nuovi traguardi dimensionali e gli obiettivi di sostenibilità. Anche qui non si tratta di essere contro le aziende famigliari. Ma è ovvio che quello che sta accadendo, il drammatico cambio di paradigma dell’economia e della politica, rende indispensabile pensare a nuove forme di coinvolgimento del capitale di rischio. Non solo la Borsa, ma anche tutte le alternative al credito bancario — dal private equity e al venture capital — che da solo non basta più. Queste sono le vere sfide del nostro futuro. Possiamo affrontarle con buone probabilità di successo se ne siamo consapevoli. Oppure adagiarci sull’illusione che si possa vivere sempre di spesa pubblica, di uno scostamento via l’altro, di nuovo debito. Ed accorgerci alla fine di aver impegnato, senza volerlo, tutti i nostri risparmi.