Corriere della Sera, 11 aprile 2022
Un saggio sulla malinconia di Berlino
Più di vent’anni fa, quando insegnavo al Collège de France, Marc Fumaroli – l’autore di capolavori critici sulla lingua francese dei secoli classici – incontrandomi davanti alla Sorbona mi disse che aveva saputo di un mio libro appena uscito. «C’est un roman?» mi domandò con diffidenza, quasi annusando, rischiarandosi subito in un sorriso quando gli dissi che si trattava di un saggio.
Il grande critico e saggista sapeva bene che ci sono capolavori romanzeschi assoluti, anche nel secolo d’oro francese da lui mirabilmente studiato, ma gli dava probabilmente fastidio la civetteria di celebrare il romanzo quale genere «democratico», e quindi «moderno». Un’analoga ironia aristocratica si avverte in Croce quando annota che in quel giorno è venuto da lui «lo scrittore di romanzi» Alberto Moravia.
Anche nelle cronache del mercato letterario il «romanzo» ha, sempre più, un rilievo speciale; in qualche modo la pubblicazione di un romanzo significa l’ingresso dell’autore o dell’autrice nella categoria o nella società degli scrittori – con o senza virgolette – anche se la morte del romanzo, soprattutto quella del romanzo cosiddetto tradizionale, è stata proclamata molte volte. Peraltro esso ha continuato a vivere, morto che parla e non la smette mai.
Il tramonto della concezione lineare del tempo e l’eclissi di un senso preciso e forte della vita, capace di dare unità agli eventi individuali e collettivi, ha sconvolto il rapporto tra Storia e storie, il racconto dell’una e delle altre. Un romanzo autentico del nostro tempo non può rappresentare la Storia se non come l’incubo di cui parlava Stephen Dedalus o il grottesco nel Tamburo di latta di Günter Grass. Deve gettarsi nel maelstrom sempre più sconvolto della Storia contemporanea, in cui ogni autentica nave del racconto incontra il suo Titanic. Naturalmente già ben prima l’autentica letteratura aveva intuito questa verità, che segna capolavori di tutte le epoche e il sottosuolo da cui nascono. «Di chi è questa voce orribile?», urla il protagonista dell’Uomo della sabbia di Hoffmann – siamo in piena età romantica – dopo aver letto ad alta voce una sua devastante poesia.
Anche in passato, e da sempre, ci sono stati grandi esempi di opere che, per narrare la vita, si sono cimentate con le difficoltà, la disarmonia, il caos latente nel rapporto fra la Storia e le storie. Ma il narratore del diciannovesimo secolo poteva integrare senza troppe difficoltà le vicende di un singolo individuo nella totalità della Storia e anche usare lo stesso linguaggio, lo stesso stile nei suoi romanzi e nei suoi scritti morali o politici. Il genere narrativo, dove successo, regressione e ripetizione si sono accompagnati con maggior continuità, è forse il romanzo storico, in cui, tranne grandi eccezioni, il fascino del tema e la garanzia della consueta partitura hanno continuato ad attirare un affascinato e vasto pubblico.
Sembrerebbe difficile trovare qualcosa di creativo e di nuovo in un romanzo storico. Ma ci sono delle sorprese – ad esempio un romanzo di grande successo e di indubbio fascino come Gli Effinger.
Una saga berlinese di Gabriele Tergit, pubblicato per la prima volta in Germania nel 1951 e ora uscito in italiano nell’eccellente versione di Isabella Amico di Meane e Marina Pugliano. Un romanzo di autentica e mai esibita originalità, nonostante il termine «saga» sia così inflazionato nei libri di questo genere. Scritta in un lungo e ormai lontano periodo, grosso modo fra il 1933 e il 1950, la saga racconta più generazioni di una famiglia di orologiai che diventano grandi imprenditori.
Il tempo degli eventi narrati giunge a sfiorare il tempo della loro scrittura, l’inizio dell’era nazista. Occorrevano un grande coraggio e una grande libertà per scrivere un romanzo di più generazioni di una famiglia nella lingua e nel Paese in cui erano stati scritti I Buddenbrook, un capolavoro assoluto. Ma Gabriele Tergit – nata a Berlino nel 1894 in una famiglia della borghesia ebraica e morta a Londra nel 1982, dove viveva già dal 1938 – racconta con una grazia e una naturalezza che sfidano ogni ridicola pretesa di emulazione e riescono a far toccare con mano, a far sentire la realtà e la vita dei tedeschi in quegli anni.
In questo fluviale racconto – il cui protagonista è Berlino più che la Germania – ci sono soprattutto la leggerezza e la malinconia piuttosto che la grandezza imperiale della capitale. Leggendolo, non si pensa ai Buddenbrook quanto ai grandi narratori ottocenteschi – come Fontane e altri meno grandi, ma di una lievità spesso incantevole, che hanno colto per sempre la malinconica poesia della città sulla Sprea. E l’atmosfera di Berlino si fonde coi paesaggi inglesi e la musicalità dei tanti romanzi che li contengono, e che sono la seconda casa di Gabriele Tergit.
Il romanzo è soprattutto la storia degli ebrei tedeschi, della grande borghesia ebraico-tedesca. La Shoah è stata il culmine del Male e rende quasi grottesco parlare dell’amore degli ebrei per la Germania. Ma questa simbiosi c’è stata e io ho conosciuto grandi figure di ebrei tedeschi che ne erano l’espressione.
Il mio Maestro di germanistica a Torino, Leonello Vincenti, era sposato con Friederike Gutmann, che veniva da un’importante famiglia ebraica di Monaco, dai cui racconti ho imparato sull’Ebraismo e la Germania più che da tanti libri. Durante la guerra, nascosti, Vincenti e sua moglie avevano sempre con sé il cianuro, nell’eventualità di essere catturati dai nazi. Ma non per questo rifiutavano la Germania e la signora mi raccontava del patriottismo della sua famiglia, durante la Prima Guerra Mondiale. Agli inizi del 1918 suo fratello, ufficiale al fronte, era venuto a casa per una breve licenza e la sera, a tavola, aveva detto che la guerra era ormai perduta. Il padre, sdegnato, voleva cacciarlo da casa. «Vergognati, come fai a pensare che Hindenburg possa essere sconfitto?». Forse avrebbe potuto dirlo anche un Effinger.