Corriere della Sera, 11 aprile 2022
Biografia di Michele Foresta raccontata da lui stesso
Se le dico granita di neve?
«Mi viene in mente quella che faceva mia mamma quando nevicava a Nicosia, una volta all’anno. Era una festa. Raccoglieva la neve pulita, aggiungeva lo zucchero, girava e me la dava. Mi ha fatto tornare indietro nel tempo...».
Un altro ricordo di allora?
«Mia madre mi tagliava il pane a cubetti con sopra un pezzettino di acciuga: erano i soldatini; se li finivo tutti potevo mangiare il re, un pezzo di pane ancora più grosso con l’acciuga intera in testa. Erano i suoi trucchi...».
Perché? Era inappetente?
«Ero mingherlino. Ha presente la regola delle 100 uova, che per far crescere un bambino bisogna fargli mangiare un uovo crudo al giorno per cento giorni di fila? Non potevo andare a giocare fuori finché non bevevo il mio ovetto».
E oggi riesce ancora a mangiarlo?
«Oggi vorrei, ma mia moglie me lo vieta, per il colesterolo. Quando vado a trovare i miei in Sicilia, però, l’ovetto fritto ci scappa sempre».
Che famiglia era, la sua?
«Modestissima, ma non ci mancava nulla. Soprattutto, non il senso dell’umorismo. Mio padre Filippo faceva il carpentiere. Oggi ha 94 anni. Mia madre Pina era casalinga: lei ne ha 87. Si vogliono molto bene. Di loro si occupa soprattutto mia sorella Luisa».
Un bel regalo che è riuscito a fargli?
«Con Luisa, abbiamo regalato a nostro padre una Panda nuova. Ma lui l’altra mica l’ha buttata! So a memoria tutte le targhe delle sue auto. La prima, una 500: EN26328. La 127: EN34586».
Intervistare Michele Foresta è un percorso a ostacoli, dove gli ostacoli sono le valigie, i marchingegni, le Moleskine numerate dove abbozza le idee, i mazzi di carte che il suo alias, Mago Forest, tira fuori per distrarti e portarti fuori dai binari della conversazione che avevi pianificato. Per esempio: va a cercare il pezzo di un grammofono, poi un telefono «portatile» in bachelite (frequenta mercatini e rigattieri, ma questo è un regalo del suocero) e con questi due in mano dice di voler sperimentare la sua nuova macchina della verità, ti fa scegliere per tre volte una carta da un mazzo e per tre volte la azzecca ascoltando il tuo tono di voce. «Quando torno da Fazio lo faccio anche lì», spiega mentre ti arrovelli su dove sia il trucco e nel frattempo hai perso il filo delle domande (e lui lo sa, lo ha fatto apposta!).
È più difficile ipnotizzare una banana o ammaestrare un piranha?
«Mi hanno dato soddisfazione entrambi. Mi è sempre piaciuto fare la parodia del mago. Di maghi che stupiscono ce n’erano già tanti, io cercavo di dare un senso arcano alle banalità del quotidiano».
La magia più grande che le è riuscita?
«A parte fare questo mestiere, il mio sogno?».
Sì, a parte quello.
«Allora direi aver fatto comparire una moglie durante uno spettacolo: la mia, Angela».
Racconti.
«Nel 2004 ero stato chiamato dalla sua azienda a Treviso per uno show. Lì ci siamo conosciuti e poi c’è voluto moltissimo tempo per approfondire l’amicizia. Siamo sposati dal 2012».
Le mostra in anteprima i suoi giochi?
«Sì, ma ormai non mi dà più tanta retta... Ma è molto obiettiva, mi fa stare con i piedi per terra. Abbiamo molte cose in comune: amiamo viaggiare, ha un grande senso dell’umorismo, le piace l’arte contemporanea, andare per mostre».
Crea da solo i suoi marchingegni?
«Sì, ho grande manualità, da ragazzo facevo l’imbianchino per aiutare in famiglia. E mi considero un dadaista: mi piace assemblare oggetti che non dialogano tra di loro. Sono fiero di un tagliaerba che mi lasciava a brandelli i vestiti e mi depilava il petto con la forma della carta scelta dalla cavia: da poco ho mandato una foto a Piero Pelù, per stupirlo. Sono affezionato a una catapulta per lanciare le carte. E a una cabina per il teletrasporto, in cui indossavo un abito come la carta da parati interna, per mimetizzarmi».
Chi sono stati i suoi punti di riferimento?
«Di sicuro Oggi le comiche, che trasmettevano una volta alla settimana, il sabato, prima del telegiornale dell’una e mezzo. Ma siccome a quell’ora ero a scuola, mi inventano delle scuse per uscire prima. E lì vedevo Harold Lloyd, ha presente?, il comico che si aggrappava alle lancette di un grattacielo. Sapevo che volevo fare il mago. Poi guardavo Pappagone, di Peppino De Filippo, i fratelli Santonastaso, Cochi e Renato...».
Il «suo» mago?
«Mac Ronay, un francese il cui personaggio era sempre alticcio e diceva solo “hep!”, il suo et voilà: andava a Studio Uno, ospite di Mina, o da Silvan. Abbiamo anche cenato insieme, una volta: avevo fatto io lo spettacolo ad Asti a un evento in cui lui veniva premiato. Gli procurai delle registrazioni dei suoi interventi nelle tv italiane e lui dopo mi scrisse una lettera molto bella».
Un altro mago verso il quale è debitore?
«Tommy Cooper, che conobbi a Londra quando andai lì, ventenne, per fare teatro di strada. Lui si esibiva davanti alla Regina! È morto in scena, poverino...».
Non è la morte migliore, per un artista?
«No. Io voglio morire in una bella sedia a dondolo a 100 anni mentre non faccio niente!».
Nel frattempo Michele Foresta, o il Mago Forest, vai a sapere, cerca una foto in cui gli rende omaggio con un cappello simile in testa. Poi ti fa vedere il quadro di Giosetta Fioroni con l’impronta della mano di Enzo Biagi acquistato a un’asta benefica. Dopo arriva con un altro scatto assieme all’amico Raul Cremona nella loro parodia di Siegfried & Roy: Sigmund & Joy.
Oggi il politically correct sta un po’ cambiando anche la comicità.
«Per evitare discriminazioni si è diviso il mondo a oltranza in categorie che sono diventate la parodia del politically correct. Siamo riusciti a sindacare perfino sul bacio del principe a Biancaneve senza il suo consenso. Di questo passo il pensiero laterale del comico va a farsi friggere, eppure i comici devono farci i conti. Pensiamo a Chris Rock alla serata degli Oscar».
Lei avrebbe fatto quella battuta?
«No, ma non avrei neppure tirato lo schiaffo. Lì però entriamo nell’umano: Zidane ha fatto perdere un mondiale alla Francia per sua sorella».
A quale «Mai dire» è più affezionato?
«Ho iniziato con Ellen Hidding a Mai dire Maik. Sicuramente è stata la più bella esperienza professionale. Di Marco Santin sono il testimone di nozze, Giorgio Gherarducci l’ho sposato io in Comune con la fascia del sindaco Sala. Il processo creativo di Mai dire gol era bellissimo: si lavorava tutti i giorni per fare un’ora e mezzo di programma. Oggi sarebbe impensabile, ma la comicità va preparata, non è improvvisazione».
E per «Lol 2» si è preparato tanto?
«Sì, e anzi mi è spiaciuto uscire perché avevo ancora tanti numeri da fare. Per fortuna sono rientrato alla fine e ho fatto quello del suonatore di capezzoli, ci tenevo molto...».
Perché maltrattava sempre Angioni?
«Ma no, lo stimolavo per simpatia, perché gli volevo bene, altrimenti lo avrei ignorato».
Guzzanti?
«Ogni volta che apriva bocca rilasciava delle perle. Tutti noi avevamo un senso di rispetto e ammirazione nei suoi confronti».
A «Lol 2» abbiamo tutti visto il suo didietro.
«Quello è uno scherzo che mi è sfuggito di mano, per colpa di Virginia (Raffaele, ndr). La mia idea era di mostrare la mia foto nudo e poi distribuire a tutti una cartolina diversa. Doveva essere una citazione di Luis Buñuel e del suo film Il fantasma della libertà...».
Non abbiamo parlato di Silvan!
«È un grande maestro, e non solo per i maghi italiani. La sua silhouette è diventata il simbolo del prestigiatore in tutto il mondo».
L’autografo più strano dove lo ha firmato?
«Su una scatola di supposte: una signora mi aveva riconosciuto uscendo dalla farmacia».
Il momento più emozionante della carriera?
«Lavorare con Renzo Arbore a Indietro tutta! Lo ascoltavo in Alto gradimento quando aiutavo mio padre in campagna e appendevo la radiolina a un albero per prendere meglio il segnale».
Come andò con Jury Chechi?
«Silvan per i suoi numeri usava una parola magica, Abracadabra, così ne volevo una anch’io. Poiché lui aveva appena vinto le Olimpiadi, alla prima puntata di Zelig usai come formula magica Jury Chechi-Chechi Jury. Abbiamo anche fatto uno spot insieme, dopo».
La battuta che non fu capita?
«Quando dissi che ero credente all’8 per mille. Un prete di Nicosia non voleva più farmi cresimare mio nipote. Mediò don Silvio Mantelli, il salesiano mago che fu maestro di Brachetti. È stato lui a celebrare il mio matrimonio».
Il pubblico più difficile?
«I bambini: è un altro lavoro. Ma una volta andai in Tanzania con ActionAid per il progetto “Se fossi nato in...”. Vederli ridere quando facevo comparire i pesciolini o mi facevo uscire venti metri di stringa dalla bocca fu emozionante».
Lo scherzo che oggi non rifarebbe più?
«A casa dormivo nella stessa stanza di mia sorella, che ha 7 anni meno di me, e più di una volta, quando rientravo tardi, la svegliavo e le dicevo che era ora di andare a scuola: lei si metteva il grembiulino e poi scopriva che non era vero».
Non è così brutto, anzi fa ridere.
«Eh, ma infatti lo scherzo per il quale non finirò mai di chiederle scusa è un altro... A casa non avevamo il riscaldamento, usavamo il braciere, e spesso utilizzavamo i tronchi di legno che portava mio padre dal lavoro, e magari avevano ancora i chiodi. Una volta presi un chiodo dal braciere, con la pinza, e le chiesi di portarlo fuori. Lei, bambina, lo prese con le mani, fece tre passi e... cominciò a urlare».
L’incubo ricorrente?
«Che non sono mai pronto per andare sul palco, mi manca sempre un pezzo: il papillon, una scarpa, un’altra cosa...».
Dopo la storia del chiodo, pare il minimo.