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 2022  aprile 11 Lunedì calendario

Un articolo di Primo Levi del 1987

Nella tarda mattinata dell’11 aprile 1987, trentacinque anni fa, la signora Iolanda Gasperi, portinaia, trovava il corpo di Primo Levi nell’atrio del palazzo di corso Re Umberto 75, a Torino. Gli aveva portato la posta mezz’ora prima, al terzo piano, dove lo scrittore era nato, il 31 luglio del 1919, e aveva abitato sempre. Non sapremo mai se il suo sia stato un suicidio o una caduta accidentale: soffriva di depressione, ma soffriva anche di vertigini. Se pure lo sapessimo, cosa cambierebbe? Quando lo scrittore austriaco Jean Améry, anche lui sopravvissuto alla deportazione nazista, si uccise in una stanza d’albergo, a Salisburgo, il 17 ottobre del 1978, Primo Levi scrisse su La Stampa che nessuno conosce le ragioni della propria morte, nemmeno chi si suicida. Améry e Levi rifletterono entrambi, e a lungo, sulla inseparabilità del ricordo dall’offesa. Nel gennaio del 1987, alcuni storici tedeschi sostennero che il nazismo fosse stato una reazione al comunismo russo: Levi intervenne su questo giornale, il 22 di quello stesso mese, con l’articolo che vedete qui ripubblicato, e che in alcune sue parti è di impressionante attualità. Ci è parso un buon modo per onorare lo scrittore e l’uomo che Primo Levi è stato, e di offrire un’altra lente sul nostro presente (Simonetta Sciandivasci)

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La polemica in corso in Germania fra chi tende a banalizzare la strage nazista (Nolte, Hillgruber) e chi ne sostiene l’unicità (Habermas e molti altri) non può lasciare indifferenti. La tesi dei primi non è nuova: stragi ci sono state in tutti i secoli, in specie agli inizi del nostro, e soprattutto contro gli «avversari di classe» in Unione Sovietica, quindi presso i confini germanici. Noi tedeschi, nel corso della Seconda guerra mondiale, non abbiamo fatto che adeguarci ad una prassi orrenda, ma ormai invalsa: una prassi «asiatica» fatta di stragi, di deportazioni in massa, di relegazioni spietate in regioni ostili, di torture, di separazioni delle famiglie. La nostra unica innovazione è stata tecnologica: abbiamo inventato le camere a gas. Sia detto di passata: è proprio questa innovazione quella che è stata negata dalla scuola dei «revisionisti» seguaci di Faurisson, quindi le due tesi si completano a vicenda in un sistema di interpretazione della storia che non può non allarmare.
Ora, i sovietici non possono essere assolti. La strage dei kulaki prima, e poi gli immondi processi e le innumerevoli e crudeli azioni contro veri o presunti nemici del popolo sono fatti gravissimi, che hanno portato a quell’isolamento politico dell’Unione Sovietica che con varie sfumature (e con la forzata parentesi della guerra) dura tuttora. Ma nessun sistema giuridico assolve un assassino perché esistono altri assassini nella casa di fronte. Inoltre, è fuori discussione che si trattava di fatti interni all’Unione Sovietica, a cui nessuno, dal di fuori, avrebbe potuto opporre difese se non per mezzo di una guerra generalizzata.
I nuovi revisionisti tedeschi tendono insomma a presentare le stragi hitleriane come una difesa preventiva contro una invasione «asiatica». La tesi mi sembra estremamente fragile. È ampiamente da dimostrare che i russi intendessero invadere la Germania; anzi la temevano, come ha dimostrato l’affrettato accordo Ribbentrop- Molotov; e la temevano giustamente, come ha dimostrato la successiva, improvvisa aggressione tedesca del 1941. Inoltre, non si vede come le stragi «politiche» operate da Stalin potessero trovare la loro immagine speculare nella strage hitleriana del popolo ebreo, quando è ben noto che, prima della salita di Hitler al potere, gli ebrei tedeschi erano profondamente tedeschi, intimamente integrati nel Paese, considerati come nemici solo da Hitler stesso e dai pochi fanatici che inizialmente lo seguirono. L’identificazione dell’ebraismo col bolscevismo, idea fissa di Hitler, non aveva alcuna base obiettiva, specialmente in Germania, dove notoriamente l’enorme maggioranza degli ebrei apparteneva alla classe borghese.
Che «il Gulag fu prima di Auschwitz» è vero; ma non si può dimenticare che gli scopi dei due inferni non erano gli stessi. Il primo era un massacro fra uguali; non si basava su un primato razziale, non divideva l’umanità in superuomini e in sottouomini: il secondo si fondava su un’ideologia impregnata di razzismo. Se avesse prevalso, ci troveremmo oggi in un mondo spaccato in due, «noi» i signori da una parte, tutti gli altri al loro servizio o sterminati perché razzialmente inferiori. Questo disprezzo della fondamentale uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani trapelava da una folla di particolari simbolici, a partire dal tatuaggio di Auschwitz fino all’uso, appunto nelle camere a gas, del veleno originariamente prodotto per disinfestare le stive invase dai topi. L’empio sfruttamento dei cadaveri, e delle loro ceneri, resta appannaggio unico della Germania hitleriana, ed a tutt’oggi, a dispetto di chi vuole sfumarne i contorni, ne costituisce l’emblema.
È bensì vero che nei Gulag la mortalità era paurosamente alta, ma era per così dire un sottoprodotto, tollerato con cinica indifferenza: lo scopo primario, barbarico quanto si vuole, aveva una sua razionalità, consisteva nella reinvenzione di un’economia schiavistica destinata alla «edificazione socialista». Neppure dalle pagine di Solzenicyn, frementi di ben giustificato furore, trapela niente di simile a Treblinka ed a Chelmno, che non fornivano lavoro, non erano campi di concentramento, ma «buchi neri» destinati a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere ebrei, in cui si scendeva dai treni solo per entrare nelle camere a gas, e da cui nessuno è uscito vivo. I sovietici invasori in Germania dopo il martirio del loro Paese (ricordate, fra i cento dettagli, l’assedio spietato di Leningrado?) erano assetati di vendetta, e si macchiarono di colpe gravi, ma non c’erano fra loro gli Einsatzkommandos incaricati di mitragliare la popolazione civile e di seppellirla in sterminate fosse comuni scavate spesso dalle stesse vittime; né del resto avevano mai progettato l’annientamento del popolo tedesco, contro cui pure nutrivano allora un giustificato desiderio di rappresaglia.
Nessuno ha mai attestato che nei Gulag si svolgessero «selezioni» come quelle, più volte descritte, dei Lager tedeschi, in cui con un’occhiata di fronte e di schiena i medici (medici!) SS decidevano chi potesse ancora lavorare e chi dovesse andare alla camera a gas. E non vedo come questa «innovazione» possa essere considerata marginale e attenuata da un «soltanto». Non erano una imitazione «asiatica», erano bene europee, il gas veniva prodotto da illustri fabbriche chimiche tedesche; ed a fabbriche tedesche andavano i capelli delle donne massacrate; e alle banche tedesche l’oro dei denti estratti dai cadaveri. Tutto questo è specificamente tedesco, e nessun tedesco lo dovrebbe dimenticare; né dovrebbe dimenticare che nella Germania, nazista, e solo in quella, sono stati condotti a una morte atroce anche i bambini e i moribondi, in nome di un radicalismo astratto e feroce che non ha uguali nei tempi moderni. Nell’ambigua polemica in corso non ha alcuna rilevanza che gli Alleati portino una grave porzione di colpa. È vero che nessuno Stato democratico ha offerto asilo agli ebrei minacciati o espulsi. È vero che gli americani rifiutarono di bombardare le linee ferroviarie che conducevano ad Auschwitz (mentre bombardarono abbondantemente la zona industriale contigua); ed è anche vero che probabilmente l’omissione di soccorso da parie alleata fu dovuta a ragioni sordide, e cioè al timore di dover ospitare o mantenere milioni di profughi o di sopravvissuti. Ma di una vera complicità non si può parlare, e resta abissale la differenza morale e giuridica fra chi fa e chi lascia fare. Se la Germania d’oggi tiene al posto che le spetta fra le nazioni europee, non può e non deve sbiancare il suo passato.