La Stampa, 11 aprile 2022
I torturati di Vorzel
Nella terra che circonda la casa di Luidmyla Peckan, a Vorzel, città trenta chilometri a ovest di Kiev, ci sono due tombe. Le ha scavate con suo figlio per seppellire la sua amica Luidmyla Shabanova e suo figlio di quattordici anni Denchyk Ihor, uccisi dai soldati russi il dodici marzo mentre cercavano di scappare dal rifugio in cui erano nascosti.
Luidmyla è seduta su uno scalino di cemento fuori casa, aspetta che suo figlio Eugen torni dal bosco con la legna. A Vorzel c’è vento, lei sta sistemando i mattoni di cemento intorno al fuoco affinché non si spenga. Sua madre, col fazzoletto stretto intorno volto, porta una pentola per scaldare l’acqua e preparare una zuppa. Cucinano così da quando la città è stata liberata alla fine di marzo. Luidmyla taglia le patate, aggiunge i funghi e comincia il suo racconto con la parola "scusa".
«Scusa, parlerò in russo. Vengo dal Donbass e questa è la mia lingua madre». Nelle sue parole ci sono le radici della guerra e purtroppo anche il suo avvenire. Luidmyla si scusa perché sa che oggi sentirsi russi in Ucraina è uno stigma. Ma viene da lì, dal Donbass, suo figlio ha lavorato in Russia per cinque anni, quella è la sua lingua madre e lei il mondo lo vuole descrivere con le parole che le sono più prossime, quelle russe.
Luidmyla è una sfollata di questa guerra, o meglio del lungo prologo durato otto anni, dell’invasione del 24 febbraio. Suo figlio ha combattuto in Donbass, lei è arrivata qui a Vorzel nel 2015 per scappare dai combattimenti sulla linea di contatto. Ha ricominciato da capo a trenta chilometri dalla capitale. Una casa modesta, un lavoro altrettanto modesto come donna delle pulizie in una palestra di zona. Vorzel è un distretto boscoso un tempo noto per le sue terme e i centri benessere. Qui, si era detta, il lavoro non sarebbe mancato. E aveva ragione. Ha lavorato sodo in questi anni, prendendosi cura di sua madre, comprando la piccola casa in cui vive, al primo piano di in un edificio alla fine di una salita nei boschi di Vorzel. L’aveva scelta per la vista sugli alberi, era una casa umile è vero, ma le piaceva l’idea di svegliarsi lì di fronte ai pini e dominare la vista. Si vede la strada principale che conduce al centro città, la chiesa, la fermata del bus che usava per andare a lavorare.
Deve essere sembrata strategica anche ai soldati russi, perché quando sono entrati in città, il due marzo, hanno occupato la struttura abbandonata adiacente per farne la loro base. E hanno occupato anche casa sua. La guerra era iniziata da una settimana, e le forze russe avevano attaccato Vorzel dal primo giorno dell’invasione nel tentativo di controllare l’aeroporto mercantile e le autostrade che conducono a Kiev. Dal momento in cui sono riusciti a entrare in città nessuno è stato più autorizzato a lasciarla. Una città al freddo, nessun accesso a cibo e medicine. Attacchi ripetuti sulle abitazioni civili. All’inizio di marzo è stato colpito anche l’orfanotrofio che ospitava cinquanta bambini. Intanto i carri armati cominciavano a stazionare lungo le strade e agli incroci, all’ingresso e all’uscita di ogni via i checkpoint russi, e lo schema ormai ben noto delle tattiche di occupazione. Hanno colpito le reti di telecomunicazioni e utilizzato dispositivi di disturbo sia per impedire la comunicazione tra i civili nelle aree colpite. Distruggere i telefoni significava, certo, evitare che i civili localizzassero le truppe russe e inviassero informazioni all’esercito ucraino, ma significava anche fare in modo che non sapessero dei corridoi umanitari per evacuare la popolazione e fare in modo che non documentassero le azioni dei soldati. Che non filmassero video, facessero fotografie, producessero cioè elementi che avrebbero potuto trasformarsi in prove dei loro crimini di guerra.
Nell’edificio che ospita casa di Luidmyla vivevano altre dieci famiglie. Nessuno di loro era riuscito ad andare via nei primi giorni successivi all’invasione, troppo spaventati di dover percorrere le strade in uscita dal paese senza sapere cosa avrebbero trovato lungo il percorso.
Quando i russi sono arrivati lì, sulla collina in fondo alla salita, hanno sfondato le porte, chiesto a tutti di uscire con le mani alzate, legato agli uomini le mani dietro la schiena mentre le donne consegnavano tutti i telefoni dopo aver distrutto le schede. Due mezzi si sono piazzati nell’edificio abbandonato di fronte scaricando armi e munizione, e dieci soldati hanno occupato le stanze al primo piano di casa di Luydmila e dei suoi vicini. Da lì, erano pronti a sparare contro l’esercito ucraino e anche contro i civili che tentavano la fuga. Luydmila lo sa, perché come le altre donne, a turno è stata tenuta in quelle stanze, nella sua cucina usata come postazione militare. Nonostante l’area fosse raggiunta dai colpi dell’artiglieria ucraina.
E questo ha un nome preciso: i russi usavano civili come scudi umani.
Oggi in casa sua ci sono i resti dei loro indumenti, lasciati prima della ritirata. In cambio hanno preso i suoi risparmi, quelli di sua madre e quelli di suo figlio.
Quando non erano prelevati per essere tenuti al primo piano coi soldati, i civili erano costretti nel seminterrato. C’erano un centinaio di persone. Una quindicina tra bambini e ragazzi.
Un giorno ricorda il figlio di Luidmyla, Eugen Peckan, i soldati hanno fatto uscire tutti gli uomini, li hanno costretti a spogliarsi al freddo - le temperature in quelle zone possono scendere tra febbraio e marzo anche a meno cinque - e li hanno interrogati. Volevano informazioni sulle posizioni degli ucraini, volevano sapere chi nel villaggio avesse delle armi. Nessuno aveva informazioni da dare, chi le aveva non avrebbe parlato così i russi hanno preso a calci sulla pancia Eugen e un suo vicino.
Poi hanno detto a tutti gli uomini di inginocchiarsi e guardare in alto dopo aver messo le mani sulla testa. Pensavano tutti che sarebbero stati giustiziati. Invece era una finta esecuzione. Si sarebbe ripetuta anche l’indomani.
Due giorni dopo, per convincerli a parlare, hanno lanciato dei lacrimogeni nella stanza e hanno chiuso la porta. La gente si è fatta prendere dal panico, dice Eugen, tutti tossivano e urlavano: aiutateci siamo civili, aiutateci. Non riuscivano nemmeno ad aprire gli occhi.
Eugen e Dimitri Denchyk hanno sfondato a calci la porta e chi è riuscito ha provato a scappare nei boschi. I russi hanno sparato. Dimitri è stato colpito di striscio sulla schiena - a terra ancora macchiata di sangue c’è la sua giacca -, il figlio di Dimitri, il quattordicenne Ihor, è morto sul colpo, sua moglie Luidmyla Shabanova è stata ferita a una gamba. Ha sofferto per due giorni, gridava e le donne chiuse nell’altra stanza coi bambini tenevano le mani sulle loro orecchie strette strette per non far sentire le urla. Erano riusciti a proteggerli dalla vista del cadavere e della donna morente chiudendoli in una stanza, ma contro le grida di dolore non potevano a fare niente.
Eugen ha chiesto a un soldato russo di avere dell’acqua per la donna. Lui ha risposto «perché, pensi ancora ne abbia bisogno?». Poi ha detto a Eugen di non muoversi e non provare a cercare aiuto altrimenti avrebbe sparato anche a lui.
Luidmyla Shabanova soffriva così tanto da implorare il soldato russo di essere uccisa. Invece è morta di dolore, su un materasso al freddo che ha i bordi rossi del suo calvario.
Oggi sono sepolti nel giardino di casa di Luidmyla Peckan, sulla tomba di lei un drappo bianco e il fazzoletto marrone che aveva in testa quando è morta. Su quella di suo figlio una fascia bianca a strisce azzurre. Sopra i mucchi di terra due croci ricavate dai rami degli alberi che, prima dell’invasione, Luidmyla amava tanto.
Fino alla fine di marzo, quando i russi hanno lasciato la zona, i corpi sono rimasti nello scantinato. Era lì, tutti insieme. I vivi e i morti.
Mentre cammina per risalire la collina un mezzo militare si ferma di fronte casa sua. Esce un soldato, sale un piano di scale. Quando torna giù ha una scatola con delle fotografie e degli abiti. La sistema nel veicolo, poi si scaglia contro Luidmyla. «È colpa tua, di tuo figlio e di quelli come voi. Maledetta gente del Donbass».
È il fratello del giovane Ihor. Era al fronte quando la sua famiglia è rimasta intrappolata a Vorzel e lui non ha potuto fare niente per salvarli.
Ora gli resta solo il padre, le tombe della madre e del fratello in mezzo agli alberi e due forme di rancore.
La prima contro l’invasore. La seconda interna, verso quelli come Luidmyla, ucraini per cui la lingua madre è il russo.