la Repubblica, 11 aprile 2022
Tutte le auto e le moto di Steve McQueen
Voglio una vita esagerata/Voglio una vita come Steve McQueen… Quando Vasco Rossi intona questi versi sul palcoscenico di Sanremo 1983 nessuno immagina che entreranno nella leggenda. Il Blasco finirà penultimo nel giudizio della (poco) chiaroveggente giuria, ma il suo canto libero che elogia la solitudine e l’orgoglio del disadattato citandone come emblema l’attore americano morto da appena tre anni, diventerà la più celebre del rocker di Zocca e l’inno di generazioni contropelo che continueranno nel tempo ad amarla come fosse scritta ieri.
D’altra parte Steve McQueen (Beach Grove, 1930- Ciudad Juarez 1980) ha vissuto nella stessa scia del coetaneo James Dean senza mai perdere lo stesso fascino ribelle e bruciato nemmeno col passare degli anni, cedendo alla malattia anziché al mortale car crash che pure ha rischiato.
Amante anche lui delle corse – come l’altro seducente Paul Newman – aveva più volte meditato di ritirarsi e dedicarsi soltanto a quelle, tanto dotato da giungere secondo a Sebring nella 12 Ore del 1970 col copilota Peter Revson dietro la coppia Mario Andretti/Arturo Merzario, pur avendo guidato col piede sinistro ingessato per via di una frattura in sei punti procuratasi due settimane prima in una gara di motocross a Lake Elsinore.
Se James Dean fosse sopravvissuto al maledetto incrocio di Cholame (California) dove la Ford Custon guidata dal ventitreenne Donald Gene Turnupseed centrò in pieno la sua Porsche 550 Little, forse non ci sarebbe stato posto per altri. La sua morte liberò il podio dove s’installerà McQueen, facendo crescere e rendendo adulta la sua ribellione “senza causa”.
Figlio di uno stuntman McQueen non aveva mai voluto essere da meno del padre, sempre guidando di persona macchine e moto di scena, dalla Triumph de “La grande fuga” alla Ford Mustang di “Bullit”, dalla Gulf-Porsche 917 de “Le 24 ore di Le Mans” alla Dune Buggy de “Il caso Thomas Crown”, dove scorrazza sulla spiaggia con la stupenda Faye Dunaway, sempre rischiando l’infarto dei produttori perché le compagnie di assicurazioni si rifiutavano di coprirlo. Tanto da costringerlo a mettere in piedi una propria casa, la Solar Productions, con la quale realizzare i futuri suoi film e finanziare soprattutto le sue gare. Corse e film a parte, anche nella vita privata Steve McQueen ha sempre manifestato la stessa passione per le automobili, non disdegnando di accompagnare le esclusive Ferrari 250 Lusso o 330 GTS, Porsche 356, Lotus 11, Mercedes 300 SL con le più comuni Austin Cooper S o casalinghe Hudson e Chevrolet americane.
Forse la preferita, a giudicare dalla quantità di fotografie che lo ritraggono con orgoglio al volante, fu la Jaguar XKSS, derivata dalle corse di Le Mans e antesignana delle Jaguar E pronte per uscire e conquistare il mondo con la loro linea filante e avveniristica.
Come tutti quelli cari agli dei, Steve McQueen muore (relativamente) giovane. Ha compiuto da sei mesi i cinquanta quando il Grande Sonno lo raggiunge il 7 novembre 1980 illudendosi di averlo spazzato via. In realtà la sua morte, che addolora in ugual misura ragazze e ragazzi piacendo in modo irresistibile alle une come agli altri, lo fa entrare nella leggenda e lo sottrae all’oblio. Milioni di adolescenti adottano il suo modo di vestire, che siano jeans sdruciti o giubbotti degli eroi irritabili (Bullit, Nevada Smith, Cincinnati Kid etc) oppure i sofisticati completi in tre pezzi da ladro-gentiluomo (Il caso Thomas Crown) realizzati su misura dal sarto londinese Douglas “Dougie” Hayward, l’epitome dell’eleganza swinging London, perché sotto qualsiasi travestimento palpita il loro stesso cuore di non riconciliati, di irriducibili uomini-contro.