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 2022  marzo 04 Venerdì calendario

Biografia di Bernard Arnault (Bernard Jean Étienne A.)

Bernard Arnault (Bernard Jean Étienne A.), nato a Roubaix (Lilla, Francia) il 5 marzo 1949 (70 anni). Imprenditore. Presidente e amministratore delegato di Lvmh (Louis Vuitton Moët Hennessy). Secondo l’ultima classifica ufficiale della rivista Forbes (aggiornata al 6 marzo 2018), detentore di un patrimonio netto di 72 miliardi di dollari, che ne fa la persona più ricca di Francia e d’Europa e la quarta più ricca del mondo. «Gestisce Lvmh, il più grande gruppo del lusso che si conosca, con un portafoglio di 70 maison, che danno lavoro a 145 mila persone nel mondo. Nel 2017 i ricavi sono arrivati a 42,6 miliardi: quasi tre volte quelli del numero due del lusso, il rivale di sempre, il gruppo Kering, fondato e guidato dalla famiglia Pinault» • «Arnault si è fatto da solo, partendo dal patrimonio messo insieme dal padre, proprietario di un’impresa di costruzioni nel Nord della Francia. Un’aziendina di tutto rispetto, ma ben poca cosa rispetto alle ambizioni del giovane Bernard, che, come tutti i francesi che si rispettano e che contano, è uscito da una delle grandi scuole dell’Esagono, il Politecnico» (Giampiero Martinotti). «A 22 anni, dopo la laurea in Ingegneria, Bernard entra nell’impresa di famiglia e subito convince il padre ad abbandonare i lavori pubblici per le promozioni immobiliari (casette al mare). Quando nell’81 Mitterrand diventa presidente della Repubblica, emigra per tre anni negli Usa» (Valeria Sacchi). «Gli americani, non troppo fantasiosi, lo chiamavano “Tin Tin”: cercava fortuna nel settore immobiliare, ma non era quella la strada. Tornato in Europa, nel giro di vent’anni il suo soprannome è cambiato in “l’angelo sterminatore”, secondo la fortunata e leggermente iperbolica definizione del giornalista del Nouvel Observateur Airy Routier, che gli ha dedicato uno dei rari libri-inchiesta. “La sua ossessione è colpire per primo – dice Routier –. Cominciò grazie ai quaranta milioni del padre, ma con la determinazione del provinciale di Roubaix che deve farsi valere a Parigi. Ha il terrore di subire le mosse dell’avversario. Allora attacca, ogni volta che è possibile”» (Stefano Montefiori). «Arnault torna nel Nord della Francia e si lancia nella prima avventura: assumere il controllo di Boussac Saint-Frères. Questo nome, sconosciuto fuori dai confini, cela in realtà un gruppo che ha fatto storia nel capitalismo d’Oltralpe. Marcel Boussac è l’uomo che ha scoperto e lanciato niente meno che Christian Dior. Ma verso la fine degli anni Settanta il suo impero, composto da grosse aziende tessili e dalla Christian Dior Couture, è ridotto in uno stato pietoso. A rilevarlo sono i fratelli Willot, spregiudicati uomini d’affari, ben presto finiti anch’essi a gambe all’aria. La sorte di Boussac Saint-Frères, tra il 1981 e il 1984, ha avvelenato la vita dei governi socialisti, stretti fra la necessità di salvaguardare l’esistenza di un grande gruppo industriale e il tentativo di evitare licenziamenti massicci. Lo Stato ha iniettato centinaia di miliardi, svaniti più o meno nel nulla. Arnault s’interessa a Boussac per due ragioni: il gruppo possiede alcuni grandi magazzini (Le Bon Marché, Conforama, La Belle Jardinière) con un patrimonio immobiliare di tutto rispetto nel centro di Parigi e soprattutto controlla un marchio mitico, quello di Christian Dior. Come abbia fatto Arnault, allora sconosciuto, a convincere il governo ad affidargli Boussac Saint-Frères resta un mistero. Ma l’esecutivo dà il suo benestare, e il giovane imprenditore rileva le azioni possedute dai fratelli Willot. Per pagarle fa ricorso ad Antoine Bernheim, socio-gerente di Lazard Frères. Bernheim comincia subito a fare di Arnault un finanziere: gli spiega come sia possibile, attraverso la costituzione di holding a cascata, ottenere il massimo potere sborsando cifre relativamente modeste, tecnica che Arnault continua ancora oggi ad utilizzare sistematicamente. Una volta in possesso di Boussac Saint-Frères, Arnault agisce come tutti i finanzieri: fa a pezzi l’impero, vende le attività tessili al gruppo Prouvost disattendendo, almeno in parte, gli impegni presi con il governo e si tiene solo i bocconcini prelibati, cioè Christian Dior Couture e la grande distribuzione. Arnault ha già capito che l’industria del lusso è una macchina per far soldi a palate, il che, ovviamente, stimola la sua sconfinata ambizione. L’uomo venuto dal Nord comincia lanciando Christian Lacroix, la nuova stella della moda d’Oltralpe, un’impresa ben riuscita dal punto di vista estetico, ancora zoppicante sul piano economico [il marchio Lacroix si rivelò poi uno dei suoi pochi fallimenti: dopo molti anni di perdite, se ne disfece nel 2005 – ndr]. Secondo obiettivo: riunire sotto la stessa bandiera della moda i profumi Christian Dior, ceduti da Boussac quando aveva bisogno di soldi. Arnault scalpita, ma è un ottimo stratega e sa attendere: Christian Dior Parfums è una filiale della Lvmh, la holding nata dalla fusione tra la Moët Hennessy e la Louis Vuitton, nella quale i bagagli di lusso sono affiancati allo champagne, al cognac e ai profumi. La fusione tra le due società è uno splendido esempio di fallimento totale: i due artefici, Alain Chevalier e Henry Racamier, sono riusciti ad addizionare profitti e fatturati, ma non i due gruppi, e si combattono senza pietà per avere il potere assoluto. Arnault, furbo e spregiudicato com’è, riesce ad approfittare della situazione: chiamato da Racamier, si allea con Chevalier, rastrella titoli in Borsa, stringe un patto con gli inglesi della Guinness, sfrutta a fondo tutte le libertà, grandi e piccole, lasciategli dai regolamenti, e fa fuori sia Chevalier sia Racamier» (Martinotti). «Sostenuto dal Crédit Lyonnais e consigliato da uno dei grandi strateghi parigini, Antoine Bernheim della Lazard, Arnault è riuscito nell’impresa con pochissimi soldi: secondo alcuni analisti, grazie al sistema delle holding "a cascata", avrebbe sborsato appena il 2 per cento della capitalizzazione di Borsa della Lvmh per diventarne il padrone assoluto» (Martinotti). «Tra le qualità di Arnault, c’è quella di essere un ambiziosissimo visionario: da quel nucleo iniziale di borse e valigie (all’epoca Vuitton era famoso soprattutto per la pelletteria) e alcolici di alta gamma pensò subito di costruire un gruppo mai visto prima, che abbracciasse tutti i settori del lusso e potesse diventare leader mondiale. […] Negli anni ’90 e 2000 e fino ai giorni nostri, Bernard Arnault ha fatto decine di acquisizioni, aiutato da collaboratori che […] hanno una visione simile e allo stesso tempo non tolgono luce all’attuale ceo e presidente del gruppo. […] Tra le figure chiave di Lvmh c’è sicuramente l’italiano Antonio “Toni” Belloni, classe 1954: […] è entrato nel gruppo nel 2001 come direttore generale e “responsabile per la gestione strategica e operativa delle aziende di Lvmh”, ruolo che tuttora ricopre, oltre a essere membro del consiglio di amministrazione e presidente del comitato esecutivo. Dalla provincia di Varese (Belloni è nato a Gallarate) alla capitale del lusso mondiale: in mezzo, studi economici e molti anni a fare esperienza in aziende del largo consumo. Il super-manager ha contribuito a fare di Lvmh il colosso globale che è, ma certamente ha avuto un ruolo negli investimenti decisi da Arnault in Italia: tra le maison di punta ci sono Fendi, Bulgari, Loro Piana, Emilio Pucci e Berluti, che, proprio grazie all’impegno di Lvmh, hanno creato moltissimi posti di lavoro in Italia. Non solo: Vuitton produce tutte le calzature a Fiesso d’Artico, sulla Riviera del Brenta, mentre Céline può scrivere “made in Italy” sulle sue borse, fatte in Toscana» (Giulia Crivelli). Da ultimo, l’impero di Arnault si sta espandendo in un nuovo, redditizio settore: nel dicembre 2018, infatti, «la società americana dei viaggi e degli alberghi di lusso Belmond è stata acquistata dal gruppo che fa capo a Bernard Arnault per 2,6 miliardi di dollari (pari a 2,3 miliardi di euro, valore che sale a 2,9 miliardi di euro tenendo conto anche dei debiti): il che equivale finanziariamente a un multiplo di 22 volte il margine lordo rettificato degli ultimi 12 mesi. Il prezzo pagato da Lvmh a prima vista sembra altissimo, anche tenendo conto delle valutazioni del settore alberghiero sul mercato. Tuttavia, Belmond è più di una catena di alberghi a 5 stelle: è un vero brand dell’hôtellerie di lusso, e quindi sotto questo profilo il multiplo pagato è in linea con altre operazioni della maison Arnault, tra le quali l’Opa su Bulgari del 2011 (quando il gioielliere romano fu valutato 4,3 miliardi) o l’acquisizione di Loro Piana del 2012 (pagata 2,3 miliardi, o 21,5 volte il margine lordo). Gli esperti fanno poi notare che il colosso anglosassone è proprietario di 27 immobili, sui 33 occupati dai suoi alberghi. […] Stiamo parlando di posti "iconici" come l’Hotel Cipriani a Venezia, lo Splendido a Portofino, il Copacabana Palace a Rio de Janeiro, il Grand Hotel Europe a San Pietroburgo o il Cataratas nel Parco nazionale dell’Iguazù in Brasile. Stiamo parlando di location uniche, con camere che nel Vecchio Continente hanno un prezzo medio di oltre 1.200 dollari a notte e in Asia superano quota 440 dollari. Ma, oltre gli alberghi, offre esperienze di viaggio uniche: […] Orient Express e […] crociere esclusive sempre a marchio Belmond. Anche Lvmh, sia attraverso gli alberghi Bulgari, sia con il marchio Cheval Blanc, sia con la nuova riqualificazione a Parigi della Samaritaine, punta sempre più sul lusso anche nei viaggi. Del resto, combinare i profumi, le fragranze dei suoi marchi, i vini e gli champagne della maison (per non parlare delle varie griffe che controlla, che spaziano da Dior a Fendi) è un modo di poter offrire a chi viaggia a 5 stelle un’esperienza di lusso a 360 gradi, soddisfacendo tutti i sensi. […] Mettere a fattor comune moda, pelletteria, vini, profumi, duty-free ed esperienze del lusso permetterà a Lvmh di offrire loro un servizio a tutto tondo e di combinare offerte e itinerari ad hoc» (Sara Bennewitz) • «Dai giornali, e non dai suoi (possiede anche Les Echos, il “Sole” francese), Arnault ha avuto la peggior seccatura degli ultimi tempi, quando quelli belgi hanno rivelato che il francese più ricco voleva diventare belga per sfuggire alla famigerata “tassa Paperone” di Hollande, con quell’aliquota al 75% che sembra pensata apposta per far prendere un po’ d’aria ai capitali locali. Di fronte alla levata di scudi generale, Arnault ha dovuto far marcia indietro e rinunciare alle delizie di Uccle, il quartiere chic di Bruxelles, dove aveva già comprato casa. Che non ami i socialisti non è una novità: all’avvento di Mitterrand, si auto-esiliò per alcuni anni in America. Del resto, nemmeno i socialisti amano lui. I commenti di Hollande, quando seppe che il suo contribuente più pingue voleva tagliare la corda, furono sferzanti. Libération titolò: “Casse-toi, riche con”, “vattene, ricco c…”, parafrasando una celebre invettiva di Sarkozy a un altro “con”, stavolta povero. Arnault, per rappresaglia, tagliò al giornale la pubblicità» (Alberto Mattioli) • Storica la rivalità con François Pinault, fondatore e oggi presidente onorario di Kering. «È sempre così: Pinault rincorre Arnault, che a sua volta cerca di superare Pinault. Una rivalità infinita tra i due imprenditori francesi, come in un gigantesco Risiko. Arnault ha gli champagne Moët & Chandon, Dom Pérignon o Veuve Clicquot, per non parlare di grandi etichette come Château d’Yquem e Château Cheval Blanc? Pinault è proprietario del cru Château Latour. Pinault ha il controllo di Christie’s, prima casa d’aste al mondo? Arnault si compra le concorrenti Tajan e Phillips (salvo poi rivenderle). Pinault è uno dei più grandi collezionisti francesi, imbattibile sull’arte contemporanea. Arnault, appassionato di musica classica, incomincia a sborsare cifre per Rothko, Warhol o Basquiat. Arnault ha scalato ben due giornali: prima La Tribune e poi Les Echos [nel 2015 anche Le Parisien – ndr]. La famiglia Pinault ha però la rivista Le Point. La lotta avviene sempre per interposta holding: Kering (ex Ppr) […] contro […] Lvmh. Una guerra che si combatte anche e soprattutto in Italia. […] Il primo scontro tra i due magnati francesi fu a Firenze. Il caso che ha dato fuoco alle polveri è avvenuto il 19 marzo 1999 per un marchio italiano, e non uno qualsiasi. Quel giorno, Pinault annuncia di aver comprato il 42% di Gucci, di cui Arnault aveva già rastrellato il 34%. Fino a quel momento, Pinault non aveva ancora mai messo piede nel mondo del lusso. Era solo proprietario dei grandi magazzini Le Printemps e di La Redoute, una società di vendita per corrispondenza. Si narra che il 19 marzo 1999, quando si ufficializzò la vendita di Gucci, Arnault era dentro a una conferenza aziendale a EuroDisney. “Pare che il padrone della Redoute voglia lanciarsi nel lusso”, disse con una punta di snobismo lui che era nel settore già dagli anni Ottanta. […] La storia finisce in tribunale e termina solo nel settembre 2001, quando Pinault accetta di ricomprare la quota minoritaria di Arnault. Da quella primavera 1999 è stato un lungo e continuo duello. Senza esclusione di colpi. Subito dopo il colpaccio di Gucci, Pinault annuncia anche di aver comprato Yves Saint Laurent, su cui Arnault aveva già fatto qualche pensierino. Pinault ricompra il gioielliere Boucheron, la maison di moda Balenciaga, Bottega Veneta, il calzaturificio Sergio Rossi. Per consolarsi della perdita di Gucci, Arnault torna a Firenze e si prende Pucci, poi va a Roma e acquista Fendi. E poi ancora Bulgari, […] Loro Piana, storico marchio piemontese che rappresenta l’eccellenza nel cachemire ed è il punto di riferimento dell’intero polo laniero di Biella. Dal suo canto, Pinault si è comprato invece l’abruzzese Brioni, gloriosa sartoria di Penne in provincia di Pescara, sinonimo di eleganza maschile. […] La guerra Arnault-Pinault ha anche fatto alzare a dismisura le quotazioni di piccoli e grandi marchi della moda. Uno accusa l’altro di aver fatto un’offerta esagerata per eliminarlo dalla gara, salvo poi fare uguale alla prossima occasione. La rivalità tra i due uomini non risparmia colpi bassi, accuse reciproche, battaglie giudiziarie. Un’analista finanziaria britannica, Claire Kent, è stata denunciata dal gruppo Arnault per aver pubblicato report troppo favorevoli a Gucci. Una volta, parlando delle lotta senza pietà tra i due imprenditori, Le Figaro ha raccontato di detective assoldati per raccogliere informazioni, tecniche di spionaggio industriale, misteriosi furti negli uffici delle holding» (Anaïs Ginori). «Per tutta la vita Arnault ha cercato di anticipare i colpi del nemico. Da qualche tempo a preoccuparlo sono gli svizzeri di Richemont, che con Cartier e Montblanc rappresentano il secondo gruppo del lusso al mondo dietro la sua Lvmh. Corre voce che Richemont provi ad avvicinarsi alla famiglia Hermès? Arnault rastrella le azioni e sale improvvisamente al 20% dell’azienda fondata nel 1837 dal sellaio Thierry. Il patron di Richemont, Johann Rupert, smentisce ogni interesse? Non importa: Arnault prende il controllo di Bulgari, il maggiore concorrente di Cartier. E all’orizzonte, da anni ormai, c’è Armani, ennesima preda italiana» (Montefiori) • Due figli dalla prima moglie, Anne Dewavrin (classe 1950): la primogenita Delphine (1975), direttore generale e vicepresidente esecutivo di Louis Vuitton, e Antoine (1977), amministratore delegato di Berluti e presidente di Loro Piana; altri tre figli dalla seconda e attuale consorte, la pianista canadese Hélène Mercier (1960): Alexandre (1992), amministratore delegato di Rimowa, Frédéric (1995), direttore del settore strategico e digitale della Tag Heuer, e Jean (1998), l’unico a non ricoprire ancora posizioni dirigenziali all’interno del gruppo • «È un signore alto e magro, avversario dei carboidrati, ma amante del vino, soprattutto dei vigneti: a parte la ventina di marchi di alta qualità che gli sono arrivati nel 1990 quando ha scalato Lvmh, assieme all’amico belga Albert Frère ha comprato lo Château Cheval Blanc, una delle migliori tenute del Bordeaux. È da quelle parti che gli piace riposarsi. Non disdegna però Saint-Tropez, dove tiene una villa sulla spiaggia, tra alberi, piscine, campi da tennis (sta a dieta per non rovinare il rovescio). Non sottovaluta le Bahamas: lì ha comprato la Indigo Island, con porticciolo e impianti sportivi. Sulle Alpi francesi si è costruito un albergo. Per standard arabi, lo yacht Amadeus non è lunghissimo, 70 metri, ma nella sua “discrezione” pare sia raffinatissimo: sopra ci hanno dormito anche Bono e Tony Blair (Lvmh controlla pure il cantiere olandese di yacht di lusso Royal Van Lent)» (Danilo Taino). «Non ha mai nascosto le simpatie a destra. […] Detesta […] l’ostentazione. Quasi impossibile trovare foto di lui sull’elicottero, che pure utilizza per spostarsi, oppure a bordo del suo yacht. Puro prodotto dell’élite francese, Arnault non frequenta salotti né serate mondane, se non quelle promozionali di Lvmh, alle quali si presenta accompagnato della seconda moglie Hélène. […] I collaboratori di cui si circonda hanno imparato a decifrare i suoi lunghi silenzi o mezzi sorrisi. […] Anche i suoi nemici gli riconoscono un certo genio imprenditoriale. Forte di un’immensa liquidità, che gli permette di improvvisare raid in Borsa o di strapagare acquisizioni e manager, sa anche giocare sulle divisioni tra azionisti per impadronirsi di aziende, come è capitato quando è diventato presidente di Lvmh (Louis Vuitton Moët Hennessy) alla fine degli anni Ottanta. Ma poi è capace di rispettare l’autonomia di quelle che chiama “maison” – molto più chic che dire “filiali” –, e non ha mai ceduto alla tentazione delle delocalizzazioni. Nonostante il 90% del fatturato del gruppo sia all’estero, la maggior parte della produzione è ancora saldamente radicata in Francia, grazie a laboratori, atelier e soprattutto alle mani di sartine e artigiani che Arnault non perde occasione di vantare. Ha pochi vezzi. È un abile pianista, disciplina che paragona alla misteriosa alchimia del suo mestiere. “Posso suonare anche dieci ore al giorno, ma non sarò mai Horowitz. Non basta solo il lavoro: deve succedere qualcosa di magico”. Anche sulla passione del tennis, che pratica con regolarità, si mostra umile. “Purtroppo con l’età non si migliora”. Una volta ha mostrato agli amici un video nel quale sta giocando un doppio con Guillermo Vilas e Bjorn Borg. È un collezionista di arte: il suo hôtel particulier in rue Barbet-de-Jouy, nel settimo arrondissement, sembra un museo. Abbina il gusto estetico per la creazione a un controllo maniacale dell’impresa: può obiettare sul colore di un rossetto o sulla forma di una borsa e improvvisare una visita a sorpresa in una delle centinaia di boutique del gruppo, da New York a Shanghai» (Ginori). «Bernard è soprannominato dai maligni “le colin froid”, il merluzzo freddo. Ogni giorno si fa servire alla stessa ora lo stesso frutto (quale, non è dato sapere). È un gelido esteta che ama i creativi e sognava di diventare pianista» (Mattioli). «Non c’è articolo di giornale su Arnault che non metta in risalto la sua freddezza: implacabile, determinato a raggiungere i propri obiettivi anche a costo di trasgredire il galateo degli affari, dominato da un’ambizione senza confini. […] Si è fatto una reputazione da lupo mannaro del mondo della finanza parigino. I suoi colleghi più gentili lo definiscono un pescecane» (Martinotti) • «Tutti sanno che, se il re del lusso mondiale non avesse avuto costantemente al suo fianco non una ma varie banche d’Oltralpe, mai e poi mai da ex costruttore edile di provincia avrebbe potuto creare un gruppo che […] senza batter ciglio può aggregare aziende come Loro Piana, mettendo sul piatto 2 miliardi di euro» (Paolo Panerai) • «Ingegnere, figlio di un imprenditore delle costruzioni, Arnault è al tempo stesso un insider e un outsider della Francia che conta. È amico dell’ex presidente Nicholas Sarkozy: è stato suo testimone alle nozze con Cécilia. I primi passi nel mondo della moda e del lusso, negli anni Ottanta, li ha effettuati con l’aiuto di Antoine Barnheim e della banca Lazard Fréres (puro establishment): con aiuti governativi e soli 15 milioni di investimento si impossessò del gruppo Boussac. […] Relazioni di vertice, insomma. Ma, d’altra parte, l’ala più tradizionale del capitalismo francese lo considera un parvenu. Primo, per come ha conquistato Lvmh: con una scalata ostile durissima, cose che nella Borsa di Parigi non si usavano fare. Poi per la sua idea di lusso, così diversa da quella della vecchia borghesia parigina, lontana, per dire, dall’approccio di Hermès, la società che Arnault vorrebbe a ogni costo comprare se non fosse per la resistenza della famiglia che la controlla. “La vera ragione per la quale obiettiamo all’interesse di Lvmh è culturale – gli ha fatto sapere con sussiego Patrick Thomas, l’amministratore delegato di Hermès –. Noi non siamo lusso: siamo alta qualità”. Per quanto snobbato dalla vecchia Parigi, bisogna dire che il figlio del costruttore edile di Roubaix non ha complessi d’inferiorità. È convinto che prima o poi conquisterà anche la maison Hermès e che per quest’ultima sarà un affare come per gli altri marchi, che in Lvmh hanno trovato muscoli e canali per dominare mercati in tutto il mondo» (Taino). «Il miliardario schivo è ossessionato dal ricambio generazionale. Lui, che vende i migliori champagne e cognac, spera che Lvmh sopravvivrà a tutti gli scherzi della storia, “come i buoni liquori”» (Ginori).