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 2022  marzo 07 Lunedì calendario

Biografia di Valerio Massimo Manfredi

Valerio Massimo Manfredi, nato a Piumazzo (Castelfranco Emilia, Modena) l’8 marzo 1943 (79 anni). Scrittore. Archeologo. Docente universitario. Conduttore televisivo. «Numeri da record: oltre 12 milioni di copie vendute, di cui 5 soltanto con uno dei suoi “long seller”, la trilogia di Aléxandros (Mondadori), tradotto in 35 lingue in 76 Paesi. […] Un’autentica officina letteraria individuale, che ha prodotto, tra gli altri, la trilogia di Ulisse, L’ultima legione, L’armata perduta, Otel Bruni, Teutoburgo (tutti usciti per Mondadori)» (Stefania Vitulli). «A me la scrittura piaceva, e piaceva anche l’archeologia. Ho avuto la fortuna, o l’intuizione, di mescolare le due cose» (ad Antonio Gnoli) • «“Sono il primo di quattro figli e in casa abbiamo vissuto con i nonni paterni. L’epica di nonna Amelia viene spesso rievocata in famiglia: lei che si era sposata con un uomo che inizialmente non ha voluto riconoscere mio padre. Anche i nonni materni sono figure meravigliose. In particolare il nonno, un cantastorie eccezionale che lavorava in un’azienda agricola”. Chi e perché ha scelto il suo nome? “Mia madre in quegli anni lavorava al servizio di una famiglia: i figli della ‘padrona’ si chiamavano Valerio e Massimo, e quando venne il momento di darmi un nome, non sapendo decidere, scelse entrambi”» (Alberto Picci). «Sono nato in un’antica cascina, poi mio padre comprò un paio di poderi ed edificò la nuova casa. “Studiate”, diceva ai due figli maschi. Era felice che ci riscattassimo. “Ma, se avete un’ora libera, quella mi appartiene”. Con mio fratello Fabrizio, oggi agronomo paesaggista, sistemavamo la frutta nelle cassette e poi sui camion. È stata una buona scuola di vita. Ci sembrava di restituire, almeno in parte, quello che i nostri genitori ci avevano donato». «I miei genitori avevano un patrimonio consistente ma agricolo, c’era una certa austerità. Però non ci mancava niente: mio padre ci mandava in vacanza al mare per un mese col taxi, ci portava a comprare i vestiti nei negozi più belli di Bologna» (a Eleonora Barbieri). «Qual era il suo gioco preferito? “La fantasia: all’asilo raccontavo di avere a casa un leone addomesticato, e ci credevo così tanto da essere diventato credibile. Adoravo i mitici fumetti de Il Vittorioso”» (Picci). «Mio padre non mi ha mai toccato, anche perché non ce n’è mai stato bisogno. Da piccolo poche volte, quando facevo cose assurde, tipo buttarmi con quello che io chiamavo paracadute, cioè con un ombrello, da un’altezza di sei metri in fienile: allora, sì, che diventava severo, perché poveretto mi voleva bene, non voleva vedermi morto o disarticolato» (ad Anna Lattanzi). «Per una serie di problemi familiari fui messo in collegio in quinta elementare. I miei venivano a trovarmi una domenica sì e una no: un trauma, ma anche una palestra di vita. Una scuola durissima. Poi passai al San Luigi a Bologna, dai barnabiti, per cinque anni: c’era una biblioteca con venticinquemila volumi, molto bello». «Ricordo quando tornai dal collegio: mio padre noleggiò un’auto e ci portò a Castelfranco Emilia in un cinema con le poltrone rosse per vedere Un dollaro d’onore». «E poi? “Poi al classico in uno statale, il Muratori di Modena. Anche lì severissimi. Tornare a casa fu un altro trauma: dovevo alzarmi all’alba e fare un’ora e mezza di autobus, non avevo più tanto tempo per studiare e neanche la mia camera, non c’era il riscaldamento”. […] Ma al liceo come se la cavava? “All’inizio ho avuto difficoltà. Poi mi sono ripreso, però non ti risparmiavano le umiliazioni. Ricordo che il professore di greco mi diceva: ‘Manfredi, perché non vai a vendere banane?’”. […] Da bambino non sognava di fare l’archeologo? “Non sapevo neanche che cosa fosse. Sono stato il secondo a laurearmi nel mio paese. Prima di me c’era stato solo Eugenio Calidori, un avvocato”. E che cosa sognava di fare? “Volevo viaggiare, fare l’esploratore. Fra le medie e il ginnasio ho letto una quantità di libri d’avventura: tutto Verne, Salgari, Stevenson, Cooper”. […] E quando ha deciso di fare l’archeologo? “Tardi, all’università. A Lettere classiche archeologia era un esame fondamentale, ed è stato lì che ho cominciato a frequentare gli scavi. Poi viaggiavo molto con gli amici: visitavamo posti straordinari, centri dell’antichità e di civiltà impressionanti”» (Barbieri). «Mi ricordo ventenne, arrivato a Micene, e ho ancora davanti agli occhi un tramonto che tingeva di rosso le mura ciclopiche. Decisi di leggere ad alta voce il passo dell’Odissea in cui Agamennone racconta a Ulisse come venne assassinato (“Come maiali ci scannavano… senza pietà. Il pavimento fumava tutto di sangue… Non ebbe cuore la cagna di chiudermi gli occhi mentre scendevo gemendo nell’Ade”). Fu magnifico» (a Davide Piacenza). «Dove ha studiato? “All’Alma Mater di Bologna. Ho avuto come docente Marta Sordi, specialista di topografia antica. Da lei ho imparato tantissimo. Era un talento soprattutto nell’interpretazione delle fonti. Leggeva molti libri gialli, e una volta che le chiesi di questa sua passione. Mi rispose che tutto il passato si può vedere come una catena di enigmi da risolvere”» (Gnoli). «Su che cosa ha fatto la tesi? “Sulla falange macedone. Mi piacevano le cose tecniche. Portai anche un modello di sarissa lungo 4 metri. La lasciai fuori dall’aula, dissi ai prof: ‘Se volete vederla…’”. Qualcuno andò a vederla? “Nessuno. Al massimo, fecero qualche sorrisetto”» (Barbieri). «Lei si laurea in cosa? “Topografia del mondo antico. Una disciplina meno eclatante dell’archeologia, ma senza la quale un archeologo avrebbe problemi a svolgere le sue ricerche”. In che senso è un aiuto indispensabile? “Un territorio può presentare dei segni che fanno intuire o ritenere che sotto ci possa essere un insediamento. […] Quando ho fatto i rilievi delle centuriazioni dei territori dell’Emilia mi alzavo in volo con un trabiccolo e scattavo una serie di foto”. Cosa riprendeva? “Un reticolo, composto da ampi quadrati, che testimoniava come i coloni romani dividevano il proprio territorio. Grazie a questa tecnica preliminare ho scoperto vari siti e partecipato a vari scavi”. Come si finanziava? “Ho lavorato all’Università Cattolica per sei anni. Molte soddisfazioni e qualche delusione”. Dovuta a cosa? “Non mi fu rinnovato il contratto. Ci stetti male per sei mesi, anche perché non capivo perché fossi stato messo alla porta. Per fortuna passai quasi subito a insegnare alla Loyola University”. Alternava l’insegnamento con la scrittura? “Sì, il mio primo romanzo, Palladion, uscì nel 1980. In realtà, avevo cominciato prima. Con un progetto che mi fu sottoposto da una piccola casa editrice – Malipiero – che faceva libri per ragazzi e divulgazione storica. Mi chiesero, per una loro collana, una storia ambientata nel mondo antico. A quel tempo mi occupavo di Sparta, e, a proposito della leggenda dei 300 di Leonida, c’era anche chi sosteneva che un paio di quei guerrieri spartani si fossero salvati. Fu quello l’inizio del romanzo. Ma dovetti interromperlo, perché nel frattempo la casa editrice cominciò ad avere dei problemi. L’ho ripreso anni dopo, completandolo. Uscì nel 1988 con il titolo Lo scudo di Talos”» (Gnoli). «All’inizio era uno studioso, un archeologo. Girava il mondo per scavare e per cercare di svelare i grandi misteri della storia. Stava diventando una specie di Indiana Jones quando scoprì la sua vena di scrittore. Fu Alcide Paolini, dirigente della Mondadori, a convincerlo. “Ero a Roma, su uno scavo, con i miei studenti della Cattolica di Milano, ospite dell’Università di Roma, che aveva fatto la grandiosa scoperta delle statue di terracotta di Lavinio”, ricorda Valerio Massimo Manfredi. “Mi venne l’idea di una storia da scrivere e la raccontai a Paolini. Nacque Palladion”. […] E poi Lo scudo di Talos […] (un long seller, molto letto nelle scuole), […] e poi L’oracolo, La palude di Hesperia, La torre della solitudine, Il faraone delle sabbie. Quasi sempre thriller internazionali che affondavano nella storia, nella leggenda, nel mistero la loro capacità di appassionare decine di migliaia di lettori. Fino ad Aléxandros, vita romanzata di Alessandro Magno, botto editoriale mondiale» (Claudio Sabelli Fioretti). «“Era l’epoca in cui Christian Jacq aveva scritto Ramses, e arriva da me il suo editor: ‘Se tu dovessi scrivere di un grande personaggio dell’antichità, chi faresti?’. ‘Alessandro’, ho risposto. ‘Che ne diresti invece di fare Zeus?’. Per me non poteva funzionare, e non se ne fece niente. La settimana dopo andai a consegnare Il faraone delle sabbie in Mondadori, e a pranzo il mio editor, Antonio Franchini, mi dice: ‘Vale’, perché non facciamo un’operazione di grande fatturato?’. Onestamente non mi sono mai occupato del fatturato: se c’è una storia che mi affascina, mi viene subito il desiderio di percorrerla. ‘Ma, se dovessi, chi sceglieresti?’. ‘Alessandro’. ‘Andiamo subito dal professore’, propose. Andammo appunto da Gian Arturo Ferrari, che allora era a capo del settore dei libri della casa editrice, che disse: ‘Benissimo: cinque volumi’. E voleva farmi il contratto: ‘Solo tu puoi farlo’, mi disse Ferrari. ‘Se accetti, spendo un miliardo di lire per il lancio’”. E lei accettò? “Mi preoccupai, chiesi tempo: ‘A Natale vado a sciare: lavorerò per dieci giorni, e se vedo che la storia decolla facciamo il contratto’”. Come andò? “Andai su, mi portai le cuffie e il cd: musiche straordinarie. Scrissi cento pagine in dieci giorni”. E il resto? “In un maso a 1.200 metri, restaurato dall’amico Giorgio Fornoni. Un boscaiolo mi mandava la colazione con la teleferica, scrivevo di notte. Il 4 ottobre del 1998, compleanno di mia moglie, che è anche la mia traduttrice, dissi: ‘Ho finito’. Ma in verità, il finale, non l’avevo. ‘Non può finire con la morte: deve sfondare nell’eternità’, ho detto a Giorgio. E lui mi fa: ‘Vuoi vedere un video che ho fatto su Dominique Lapierre in India?’. Lo vidi: era bello. Ma a me interessava la musica di sottofondo’”. La voleva per l’epilogo? “Il giorno dopo mi arrivò il cd. Con un taxi da Milano, sempre con la teleferica. C’era la luna piena, in fondo il rumore del fiume: alle due di notte mi sono seduto e ho scritto il finale di getto. È stato pubblicato così, senza cambiare una sola parola”» (Vitulli). «Diciamo che dopo Alessandro, che ha avuto un successo planetario, sono stato un po’ inchiodato al romanzo dell’antichità. Non è così, in realtà: quasi la metà dei miei libri vivono in età moderna o assai vicina all’età moderna. L’oracolo narra della notte in cui è avvenuto l’assalto al Politecnico di Atene, quindi nel 1973, e tra l’altro io era là. La storia di Chimaira si svolge a Volterra nei nostri anni, quelli attuali, La torre della solitudine si colloca negli anni ’30 nell’Africa nordorientale, Palladion è invece ambientato a Pratica di Mare, vicino a Roma, negli anni ’80, e potrei continuare». Tra i suoi ultimi libri, il romanzo Quaranta giorni (Mondadori, 2020), in cui ricostruisce morte, resurrezione e ascensione al cielo di Gesù Cristo, e il saggio Come Roma insegna (Pienogiorno, 2021), scritto a quattro mani col figlio Fabio Emiliano Manfredi, agile excursus delle molte e tuttora attuali lezioni impartite dalla civiltà dell’Antica Roma al mondo intero • «Da archeologo tra gli anni Settanta e gli Ottanta ha diretto le spedizioni Anabasi per ricostruire la ritirata dei Diecimila del re persiano Ciro; ha partecipato a dozzine di scavi in giro per l’Europa, il Medio Oriente, l’Asia; ha tenuto lezioni e seminari in una lunghissima serie di atenei mondiali (tra gli altri: il New College di Oxford, la University of California di Los Angeles, la National University di Canberra, Australia, l’Università dell’Avana, a Cuba, l’Universidad de Antioquia a Medellín, in Colombia), ha scritto soggetti e adattamenti per il cinema e la televisione (L’ultima legione, Le memorie di Adriano), ha condotto programmi tv (Stargate – Linea di confine, Impero)» (Piacenza) • Due figli, Giulia e Fabio Emiliano, dal matrimonio con l’insegnante d’inglese e traduttrice statunitense Christine Fedderson. «L’ho conosciuta quando ho accompagnato nonna Amelia in America per ritrovare suo fratello» • L’11 febbraio 2021 Manfredi e la collega Antonella Prenner furono rinvenuti esanimi nella casa romana dello scrittore da sua figlia Giulia, e quindi prontamente sottoposti a intense cure ospedaliere, grazie alle quali, dopo aver versato per alcuni giorni in gravissime condizioni, riuscirono poi a ristabilirsi completamente: risultò poi che ad avvelenare i due, all’interno dell’appartamento, era stata con ogni probabilità una perdita di monossido di carbonio proveniente da un altro locale facente parte del medesimo stabile • «Tendiamo troppo spesso a dimenticare: l’Unione europea ci ha dato il periodo di pace più duraturo della storia del continente. Dovremmo ringraziarla. Chi vorrebbe invece disintegrarla, spesso con un bieco populismo, non sa di che parla. […] Di Roma, invece, si possono dire un milione di cose. È un lascito di trenta secoli, per cui è normale che non sia Stoccolma o Ginevra, e, anzi, secondo me va bene così. Ricordo una volta, qualche anno fa, in cui mi trovavo dinnanzi al Pantheon con un signore straniero abbastanza fissato con le peripezie di Silvio Berlusconi. Allargai le braccia a indicare il luogo in cui eravamo e dissi “Noi siamo questi”. Ed era vero: noi siamo anche e soprattutto quelli che hanno fatto Roma, la città di gran lunga più affascinante del mondo, che porta le testimonianze di ogni epoca che ha vissuto» • «Mi è piaciuto molto Il divo di Sorrentino, un’opera mirabile realizzata in maniera incredibile. […] Ho fatto i complimenti di persona a Toni Servillo, per la sua interpretazione magistrale: era più Andreotti di Andreotti stesso. […] Passando all’architettura, Renzo Piano mi commuove. L’Auditorium di Roma sembra una libellula posatasi lì quasi per caso. Un vero colpo di genio» • «Nei suoi viaggi […] si sarà emozionato. “Certo, durante la ricostruzione dell’Anabasi per esempio, quando arrivi a vedere il Trofeo dei Diecimila… Poi di fronte ai paesaggi, ai colori, ai silenzi in quelle terre dove il tempo sembra non sia mai passato: sull’altopiano dell’Anatolia ho visto ventilare il grano come ai tempi di Omero. Fantastico”. Durante i suoi viaggi ha incontrato anche Fidel Castro. “Sì, ero a Cuba per presentare la mia trilogia e lui mi ha invitato a cena, più di una volta. Funziona così: arrivi verso le undici di sera e poi lui ti intrattiene fino alle 7-8 del mattino”. E perché l’ha invitata? “Perché è un mio fan. Anzi, lui è un fan di Alessandro il Grande, così il figlio gli aveva regalato la trilogia in spagnolo. […] Il suo nome di battaglia era Alejandro. Mi ha spiegato che lo colpiva che Alessandro avesse sbaragliato un esercito, quello persiano, grande il quadruplo del suo. Gli sembrava la sua stessa impresa”» (Barbieri) • «Il suo segreto: l’immedesimazione. “Niente nozioni, per quelle basta dare 500 euro a un qualsiasi studente del secondo anno: ci vuole il governo di emozioni potentissime. Voglio dare al lettore la possibilità di vivere una vita parallela e inedita, che il suo destino personale non gli avrebbe mai permesso”. Niente documentazione? “Ma certo, studio, anche. Per Aléxandros tutte le mattine avevo sul tavolo le fonti basilari: Plutarco, Diodoro, altri frammenti. Li tenevo aperti tutti assieme e costruivo la sua giornata, attingendo ai brani più intensi e impressionanti. Per Il faraone delle sabbie mi sono fatto procurare un appuntamento con un agente del Mossad: ci siamo bevuti una Maccabee al King David Hotel di Gerusalemme”. Come fa a entrare “fisicamente” nel plot del libro che sta scrivendo? “Uno dei miei ‘particolari di bottega’ è la musica. Ho un collaboratore cui spiego che cosa sto scrivendo e questo genio mi costruisce una colonna sonora diversa per ogni romanzo. Così mi isolo dal mondo, dal presente, dalla mia stessa famiglia e vado in trance”» (Vitulli). «Quando il libro è finito? “Sono distrutto. Dopo le 1.400 pagine di Aléxandros avevo la pressione bassissima, 85 su 45”» (Mariarosa Mancuso) • «In che misura la storia entra nei suoi libri narrativi? “È lo sfondo senza il quale non esisterebbero. Quando ci sono, le fonti vanno usate. […] Quando non ci sono, o appaiono contraddittorie, al romanziere resta come risorsa la fantasia”. […] Ai suoi lettori cosa prova a trasmettere? “Credo che la cosa più importante sia l’emozione. Quando presentai il mio Aléxandros a Parigi, alla fine si avvicinò un signore piccolo con una coroncina di capelli. Mi disse che era un contabile che passava tabulati tutti i giorni. ‘Poi’, aggiunse, ‘lei mi ha fatto cavalcare Bucefalo’. Ecco, per me la narrativa è come cavalcare Bucefalo”» (Gnoli) • «I romanzi di Valerio Massimo Manfredi hanno in comune sempre due pregi: la leggibilità e l’accuratezza storica. Per la seconda dote non c’è da stupirsi, visto il mestiere di Manfredi, docente di Archeologia. Ma è la prima dote che ha fatto di lui forse il più letto scrittore italiano nel mondo. […] Ogni suo romanzo è un viaggio meraviglioso che coinvolge tempi e spazi, e che non manca mai di una sorpresa finale» (Marco Guidi) • «Ho rispetto per la categoria dei critici anche quando da zoppi, come diceva Oscar Wilde, ti vogliono insegnare a correre» • «I colleghi accademici che cosa le dicono? “Dipende. Mi risulta che alcuni dicano di me cose sgradevoli. Ma sono certo che non mi hanno mai letto. E comunque è un problema loro, non mio”» (Barbieri). «Ha mai provato a fare lo scrittore serioso? “Il tritapalle? No. Ma sarei capace. Sono un professore e sono attrezzato. Ma io dico a questi soloni che mi guardano storto perché scrivo bestseller: io posso scrivere una roba schiacciamaroni in un mese, come fate voi. Provate voi a scrivere una storia che prende, esalta o angoscia e in più vende un paio di milioni di copie…”» (Dante Matelli) • «Lei ha mai sognato di vivere in un’altra epoca? “No, mi piace la mia”» (Barbieri).