21 marzo 2022
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Biografia di Lea Pericoli
Lea Pericoli, nata a Milano il 22 marzo 1935 (87 anni). Ex tennista. «Ero una buona giocatrice, non una campionessa. Sono stata fra le prime 16 del mondo. Ho battuto cinque vincitrici di slam, ho giocato tre volte negli ottavi a Wimbledon, quattro volte al Roland Garros, la semifinale del ’67 a Roma. Tutto da autodidatta: il mio tennis era istintivo e selvaggio» (a Massimo Cutò) • «A neanche due anni, con la madre Jole, si imbarca sul Conte Rosso per raggiungere il padre Filippo, che ha seguito le truppe in Etiopia. “È stato il primo civile a entrare ad Addis Abeba. Aprì una ditta di importazioni e diventammo ricchi, ma scoppiò la guerra, arrivarono gli inglesi e lo fecero prigioniero. Doveva finire in India, ma ai tempi delle stragi di Graziani papà aveva salvato tante persone, tra cui il cameriere personale dell’imperatore. Il Negus lo graziò e lui fece di nuovo fortuna, per poi perdere di nuovo tutto. Più volte. […] Papà ha ospitato Montanelli quando è andato in Etiopia. Venne anche Gualtiero Jacopetti, uomo di grande fascino. Con Gualtiero sono uscita un paio di volte, a Roma”» (Roberto Perrone). «Il primo grande amore non tarda a mostrarsi: “Cominciò dopo la guerra – ha raccontato lei –: tornavamo indietro dall’Asmara, dove eravamo sfollati, e mio padre ci portò ad Addis Abeba. Nel giardino della grande villa in cui andammo vidi per la prima volta un campo da tennis. Avevo nove anni. Il tennis mi folgorò subito”» (Franco Tettamanti). «Mio papà Filippo era un buon giocatore di terza categoria e ha sempre amato questo sport. […] Giocava con gli amici e mi insegnava a giocare, al punto che, quando mancava un avversario, mi dava una racchetta e mi faceva provare. Da fuori sembrava più semplice: perdevo molte palle. Era più facile quando, nelle giornate di pioggia, mi allenavo contro il muro maltrattando la pallina. Ma lentamente gli errori sono diminuiti. E su quel campo ho trascorso giornate meravigliose, con partite mozzafiato. Anche mamma Jole aveva buone doti tennistiche, tanto che una volta decidemmo di proseguire fino a che una avesse ceduto per stanchezza. Ebbene, ho ceduto io, perché sono svenuta! A 2.420 metri di altitudine (Addis Abeba è la più elevata città africana – ndr) non è facile tirare il fiato. Forse, imparando a quella quota, sono riuscita ad ottenere la resistenza che mi ha consentito di avere un fisico fortissimo» (a Ferruccio Annibali). «La giovane Lea […] a 12 anni viene spedita a Nairobi, Loreto Convent. “Durissimo. Ero l’unica italiana. All’inizio pensavano fossi sorda perché non capivo nulla e urlavano. Però ero brava a cavallo, le stracciavo a tennis, ero perfino titolare nella squadra di hockey su prato. Mi sono guadagnata il loro rispetto”. Il Kenya finisce insanguinato dai Mau-Mau, e Lea torna in Italia» (Perrone). «Dovevo lavorare, perché avevamo perso tutto in Africa: il tennis era un lusso. Sveglia alle 6.30, di corsa in Vespa all’Ambrosiano di Milano, poi alle 8.30 alla mia scrivania in Via Verri, dove ero segretaria in una ditta di import-export. Alle 12.30 di nuovo a giocare un paio d’ore, per poi tornare in ufficio» (ad Angelo Mancuso). «Mi sono impegnata per imparare la stenografia, per fare la segretaria… Una segretaria che si rispetti deve avere queste nozioni. Ho frequentato una Scuola in via Vittorio Veneto… mi ci sono buttata a capofitto, com’è nella mia indole. Ma, pensando che una segretaria, pure di rango, deve sottostare a orari fissi, ho intrapreso altre attività, che mi hanno dato notevoli soddisfazioni. Fui segretaria di Joe Nahmad, figlio di un banchiere libanese, poi collaborai con piccole ma note case produttrici. Ho curato anche alcuni caroselli, ormai leggendari, con noti protagonisti quali Mina, Virna Lisi e Giovanna Ralli. Mi inserii anche nella moda, e ho così avuto modo di conoscere i più celebri stilisti». «Forte dei Marmi, Torneo delle Focette. “Non ero neanche tesserata: gioco e vinco. Un sogno. Stavo in mezzo ai più grandi dell’epoca: Del Bello, Cucelli, Gardini. Fausto venne da me. ‘Se facciamo una foto con i prodotti Binaca, ti faccio avere una Parker d’oro’. L’avrei fatto anche gratis”. Però a quei tempi la separazione tra dilettanti e professionisti è custodita da guardiani feroci. “Mi convocò il segretario della Federazione, Piccardo, piccolo, nevrotico, cattivo: minacciò di squalificarmi per la pubblicità e perché risultavo iscritta a due club. Ero una ragazzina, che ne sapevo?”. Lea sta ferma un po’, poi riprende» (Perrone). «Nel 1955 vince il primo titolo italiano nel doppio femminile e nel misto. Nel 1957 conquista la Coppa Duncan a Montecarlo e nel 1958 il titolo nazionale nel singolo. Ne seguiranno molti altri, e il bilancio sarà di dieci titoli nel singolo, undici nel doppio e sei nel doppio misto. Tiri, smorzate, pallonetti. La classe, la caparbietà, la resistenza. Un sorriso che conquista subito e lo sguardo attento e curioso» (Tettamanti). Clamoroso, nel 1955, l’esordio a Wimbledon. «“In precedenza mi aveva avvicinata Ted Tinling, ex colonnello dell’esercito, alto alto e calvo, gay, aveva un fidanzato piccolino e malinconico. Disegnava cravatte, camicie, abbigliamento sportivo un po’ bizzarro. La sua prima tennista-modello era stata Gussie Moran: mutandine panterate. Avevo visto la sua foto quand’ero a Nairobi, nel convento di suore”. […] Il tennis di quegli anni è un mondo chiuso, di rigore il bianco (“ma io lo vorrei anche adesso, solo il bianco”), donne con gonne abbastanza lunghe, o con sottana-pantalone, movenze aristocratiche. Tinling e le sue tenniste-mannequin buttano il sasso nello stagno. Lea si presenta in sottogonna di tulle rosa, mutandine rosa e calze rosa. I fotografi impazziti, il pubblico diviso. “I fotografi mi distraggono, vinco facile il primo set con una spagnola che mi è inferiore, poi mi blocco e sono eliminata. Peggio: mio padre mi proibisce di continuare col tennis. Il clamore non gli è andato giù. Quelle mutandine, quella gonna di cui hanno misurato la lunghezza più volte, ma era nelle regole – meno nelle regole semmai le mutandine –, è tutto esposto al Victoria and Albert Museum di Londra, come altri capi che più tardi Ted mi fece indossare: un gonnellino di visone, uno di penne di cigno, un abitino di petali di rose, un pigiama di pizzo, in Sudafrica perfino un vestitino d’oro con le mutandine di brillanti. Vorrei chiarire che questi costumi stravaganti, a volte eccessivi, li indossavo solo per le gare facili. Se c’era da soffrire, tenuta bianca classica. Ho cominciato con Ted perché mi divertiva e perché in Italia era molto diffusa l’idea che lo sport trasformasse le donne in muscolose virago senza grazia. Ho fatto una scelta dalla parte delle donne”» (Gianni Mura). «Diventa icona di stile, ma tra un torneo e l’altro lavora come interprete e corrispondente per un commerciante libanese. “Olio, noccioline. Forse anche armi”. Con le racchette non si guadagna» (Perrone). «“Del tennis, a quei tempi, mi affascinavano soprattutto i viaggi, perché guadagni non ce n’erano. La purezza del dilettantismo. Voli notturni per spendere di meno, pensioncine da pochi soldi. A Wimbledon, oltre al ticket per la prima colazione, avevamo diritto al macchinone che ci portava dall’albergo ai campi. Per il resto, ci arrangiavamo: quelle poche lire, ce le strappavamo giocando a poker fra di noi. Poveri ma belli”. Per le tenniste carine, un modo di arrangiarsi era accettare inviti a cena da sconosciuti ammiratori, e dopo cena arrivederci e grazie. “Eravamo a Londra. Dico a Lucia Bassi che avevo rimediato un invito per due, e lei mi fa: non m’interessa, sono una ragazza che ha dei princìpi. E io sono una ragazza che ha fame e ci vado anche da sola, le ho detto. E fatto”» (Mura). «È vero che vi giocavate la colazione a carte? “Ramino e scala quaranta. Una notte, prima di Wimbledon, ci trovammo io, la Lazzarino e Nicola per una partita di strip poker”. Come andò? “Uhm… Silvana fu più audace di me”. E Pietrangeli? “È tornato in camera con un asciugamano in vita”» (Cutò). «In 500 anni di tennis Gianni Clerici scrive più o meno che nell’ambiente tutti erano innamorati di lei, ma non è stata una campionessa. “È vero. Sono stata una buona tennista rovinata nel momento migliore. Contro quelle pari grado o inferiori vincevo, contro quelle più forti perdevo, ma qualche soddisfazione me la sono tolta. […] La soddisfazione è aver battuto cinque vincitrici di un grande slam: Shirley Bloomer, Karen Susman, Ann Haydon, Françoise Dürr e Billie Jean King. Mi ha rovinata Dinny Pails, australiano: alle sue lezioni mi aveva mandato la Federtennis. Prima giocavo un tennis istintivo, molto aggressivo, selvatico, tipico di chi è cresciuto senza maestri. Pails mi ha cambiato l’impugnatura e costretta a diventare specialista di pallonetti. Non avevo l’età per ribellarmi: mi sono adattata a giocare un altro tennis. E dire che avevo il polso di Borg. Clerici scrisse pezzi di fuoco, sostenendo che Pails era un asino, un cane testardo di nessuna utilità. Niente da fare. Non l’ho odiato: odiare costa fatica”» (Mura). «La qualità agonistica che si riconosce? “La resistenza, che è fisica, ma riceve la spinta dalla mente, dalla volontà: credi e vuoi, sei forte dentro”» (Vincenzo Martucci). «Per me conta vincere e basta». «Nel 1973 le fu diagnosticato un tumore, e la medicina non era quella di oggi. Lo affrontò pubblicamente, diventando anche prima testimonial della ricerca contro il cancro, coinvolta da Umberto Veronesi. “Voglio giocarmela punto dopo punto – disse –, come una partita. Il tennis mi ha insegnato a stare al mondo e ad accettare le sconfitte”» (Marco Calabresi). «“Campionessa d’Italia sei mesi dopo l’operazione per un carcinoma all’utero. E nel 2012 ho superato un tumore al seno. Il professor Veronesi mi disse: la tua battaglia pubblica vale cento conferenze”. Una donna forte. E il soprannome di Coniglio coraggioso? “Montanelli mi chiamava così perché avevo paura di sbagliare”» (Cutò). «Lea smette a quarant’anni, 1975. Agli Assoluti vince singolo, doppio e doppio misto con Adriano Panatta, “che è stato anche fidanzato con mia sorella”» (Perrone). «Perché disse basta? “Il tennis è stato un grande amore. E i grandi amori vanno lasciati prima che diventino vecchi mariti”» (Cutò). «Dal 1975 […] non ho più preso in mano la racchetta. Quando qualcosa finisce, finisce e basta!». «Come ebbe terminato di assemblare i 27 titoli italiani, Lea prese a scrivere, anticipando due attività spesso in contrasto quale giornalismo scritto e parlato. Iniziò, con la Lettera 22, alla Notte, per essere notata da quel genio di Montanelli, che forse se ne innamorò anche lui, e passare al Giornale» (Gianni Clerici). «Fu Montanelli a volerla cronista di sport, e poi di moda. “Sul primo numero del Giornale c’è la mia firma in prima pagina: ne sono orgogliosa. Ricordo che portai il pezzo a Carlo Grandini, capo dello sport. Era un foglio battuto a macchina sui due lati. Prima di leggerlo, mi disse: ‘Guarda che, due fogli, ce li possiamo permettere’. E mi è sembrato di tornare bambina, quando i diari li scrivevo solo sulla pagina di destra”. Conclusione amara: “Diventa direttore Vittorio Feltri, mi convoca e mi dice: ‘Da domani lei non è più collaboratrice di questo giornale’. Così, secco. Mi ha fatto male la mancanza di una spiegazione, dopo tanti anni credevo di meritarla”. […] “Molti agli inizi mi chiedevano: dì la verità, i pezzi, chi te li ha scritti? Sottinteso: non puoi essere stata tu. Roba da arrabbiarsi, ma ho sempre cercato di vedere nelle cose il lato positivo. Se c’erano questi dubbi, dovevano essere pezzi decenti. Ho avuto la fortuna di scrivere di moda proprio negli anni del boom per il prêt-à porter, di stringere amicizie durature come quella con i Missoni”» (Mura). «Poiché Lea era abituata a superare match in tre set, insieme al giornalismo giunse anche la tv. Telecronache di tennis, quale primo commentatore femmina in Italia, ma anche altro, e quale altro. A Montecarlo, dove spesso soggiornava, amata dal principe Ranieri, iniziò un gioco chiamato Paroliamo, e, con il famoso Jocelyn, a Parigi, una Caccia al tesoro in elicottero, anche perché, confessa ridendo, era l’unica donna a esprimersi disinvoltamente in tre lingue. Il giorno in cui Lea chiese a Montanelli di correggerle un pezzo complicato, ebbe un’inattesa risposta: “Non correggo neanche me stesso, ci mancherebbe con te. Ma perché, quando sei libera, non ci provi, con un libro?”. Giunse così un libro insolito, Questa bellissima vita, nel quale Lea affermava, con ininterrotti esempi, quanto sia da vivere positivamente la vita, quel che spesso dimentichiamo in una somma di contrarietà, sfortune, fastidi o semplicemente contrattempi. Seguì un volume di successo, forse non sufficiente tuttavia per la storia di un’italiana che aveva abitato una Colonia, e l’aveva amata quasi fosse la patria [Maldafrica. I ricordi della mia vita, Marsilio, 2009 – ndr]. […] Fu poi la volta di C’era una volta il tennis, una biografia della quale il nostro amico Nicola [Pietrangeli – ndr] non può non essere fiero, il lungo ricordo di una affettuosa amicizia di sessantenni, forse il modo migliore di trascorrere una vita parallela. E, ingiustamente scambiato per comuni fiabe africane, un testo poetico di grande creatività, L’angelo capovolto» (Clerici). «E poi la radio, addirittura un’apparizione da attrice in una serie televisiva, ma il tennis sempre come filo conduttore, che la porta in giro per il mondo come madrina della nazionale femminile, […] in cui fa da mamma alle grandi campionesse della generazione attuale» (Elia Pagnoni) • Da alcuni anni patica con passione il golf. «Il tennis, certo, e poi il golf. Sempre a rincorrere una pallina. Mi sa che nella vita precedente ero un cane» • Nubile, senza figli. «Ho un carattere che mi porta a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. Ho avuto una vita meravigliosa e ogni giorno la ringrazio. Ho avuto tanti amori importanti, anche dolorosi, e vivo da sola, ma convivo bene con me stessa, mi parlo e mi rispondo. E ho tanti amici. Nicola [Pietrangeli – ndr] dice che solo i cretini non hanno rimpianti: sarò cretina, ma non ne ho» (Mura). «Flavia Pennetta è la figlia che avrei voluto avere e non ho mai avuto. La adoro: è tenera, gentile, tutte le volte che viene a Milano mi telefona» • «“Io sono un ariete, impulsiva, ho preso delle cotte furibonde, alcune sono stata abile nel mascherarle, altre le ho vissute e ne ho ricavato quelle emozioni che fanno essere felici, nella vita. Ci sono tante forme d’amore, ma è una parola finita nella mia testa, perché una donna dev’essere per forza bella, l’uomo può anche essere brutto, e ora che non c’è più la giovinezza… No, non mi diverte, sarebbe sconveniente”. […] L’amore più grande? “Dico Guido Rocca”» (Martucci) • «“Ho sempre tenuto molto al mio aspetto. Anche adesso, se non sono truccata e con i capelli a posto resto a casa”. La chiamavano “divina” come Suzanne Lenglen, la più grande di sempre. Chi le diede quell’appellativo? “È stato Gardini. Fausto mi iscrisse di nascosto alle selezioni di Miss Italia a Cortina: vinsi ma la piantai lì, alla finale mi avrebbero stracciata. E io […] non gradisco perdere”. […] Tailleur pastello e occhiali fumé, è un’intramontabile icona di charme. Che cos’è lo stile? “Ascolto la lezione di Armani: ‘Lea, la moda non va seguita, ma governata’”» (Cutò). «Ho cambiato l’immagine delle tenniste con grazia» (a Michaela K. Bellisario) • «Femminilità batte femminismo? […] “Non mi sono riconosciuta in quel movimento: troppo fanatismo. La guerra all’uomo è ridicola: la differenza di genere esiste, e menomale. È così bello farsi coccolare, sentirsi protette e amate dal maschio”. Signora, si rende conto di rischiare il rogo? “Figuriamoci. L’uomo dev’essere cavaliere e la donna va conquistata”» (Cutò) • «Ha conosciuto molti cavalieri? “Uno su tutti: Nicola Pietrangeli. È l’uomo più affascinante che abbia mai incontrato. Ma talmente pigro che, la sua biografia, l’ho scritta io”. Soltanto amici? “Fra noi non è successo niente: siamo stati complici e confidenti. Abbiamo giocato poco il misto assieme perché faceva il galante con le avversarie e rimproverava me: ‘Lea, come puoi sbagliare una palla così’. A volte mi chiede: ‘Perché non ti ho sposata?’. La mia risposta è: ‘Io avevo sempre un altro, tu almeno altre due’”» (Cutò). «Nicola è un pezzo della mia vita. Nella mia casa di Milano ha la sua stanza» • «Vivo fra Milano e Montecarlo, ma per me “casa” è Nairobi, e l’altopiano d’Etiopia al tramonto quando arriva l’ultimo soffio di vento caldo, il sole va giù e io sono davvero felice. Nella mia Africa, ci torno almeno una volta l’anno» • Tra le sue passioni anche la pittura. «Ne ho dipinti 80 un inverno per recuperare dalle sconfitte» • «Spontanea, scanzonata, autoironica, elegante, intelligente» (Martucci). «Noi del tennis, e non solo noi, siamo stati tutti innamorati della Lea. In un Paese cattolico come il nostro, è difficile sfuggire a un’immagine femminile che idealizziamo, sia quella che non oso dire, sia la mamma, sia la moglie. Insomma, l’amore. […] Mi sono ricordato di averla vista la prima volta al torneo di Wimbledon del 1956, e di essermene subito innamorato, giovane giornalista che ero, al Giorno. Lei aveva giusto vent’anni. […] Ne sono ancora innamorato» (Clerici) • «Molte donne di una certa età quando vado a fare la spesa in tram mi sorridono e mi salutano, e questo mi rende felice» • «Guarda il tennis? “Sì, ma lo trovo molto muscolare e monotono. Amo Federer: è la perfezione. La magia del suo tocco ti fa sognare”» (Mancuso) • «Come si sente? […] “Bene, memoria a parte. Semino bigliettini per casa e faccio un gran casino, ma così dimentico anche i dolori passati. Guardo avanti, sono innamorata della vita: mi seccherà lasciarla, il più tardi possibile”» (Cutò). «Potrei essere una donna infelice: ho avuto tante storie e ora vivo sola. Però ho tanti amici, e la mia esistenza è stata ricca perché ne ho apprezzato ogni minuto».