Tuttolibri, 9 aprile 2022
Intervista a Laura Lippman - su "La ragazza dei sogni" (Bollati Boringhieri)
«La ruota gira, la pallina rimbalza, rimbalza, rimbalza». I destini umani sono misteriosi, la roulette della vita può portare gloria o sofferenza, fortuna o disastri, al di fuori del nostro controllo. Cosa non facile da accettare per nessuno, tanto meno per uno scrittore, colui che, per definizione, ha potere di vita e di morte sul mondo che crea. E al centro della Ragazza dei sogni di Laura Lippman c’è proprio uno scrittore maniaco del controllo: protagonista assoluto, vittima, colpevole, investigatore, perfino giudice, di un mondo interiore i cui confini con quello reale sono particolarmente tenui, tanto che fino alla fine resta il dubbio se ciò che gli accade sia vero o immaginato. D’altronde «la linea tra fiction e vita reale è sottile e scrivere significa sempre appropriarsi della vita altrui».
Siamo dalle parti, dichiarate, di Misery non deve morire, uno dei capolavori di Stephen King: lo scrittore è un divoratore di anime, finché i suoi personaggi non gli si ritorcono contro. Ulteriore aggravante, Gerry Andersen è un maschio bianco - peggio, biondo - di mezza età, nel momento sbagliato della storia, quando la sua categoria, per secoli dalla parte dei dominatori, viene guardata con sospetto a prescindere. Si è rotto le gambe in un incidente domestico ed è costretto a letto nella sua casa di Baltimora, città natale che aveva lasciato per New York e dove è tornato per assistere la madre morente. Il glamour pretenzioso dell’appartamento, con la sua scala sospesa tra un piano e l’altro, diventa minaccia per un invalido e rende improvvisamente Gerry vulnerabile, alla mercé delle due donne che si alternano ad assisterlo: la timida segretaria e la scialba infermiera notturna. I farmaci antidolorifici lo tengono in uno stato di dormiveglia, così, quando riceve una chiamata misteriosa da Aubrey, come la protagonista del suo romanzo di maggior successo, La ragazza dei sogni, non capisce se è una delle sue tre ex mogli, o la sua ex amante Margot, guidate dal desiderio di vendetta o un fantasma congiurato dalla sua mente.
Come in un diabolico girotondo, nei pensieri di Gerry si affollano le figure del suo passato, «prima che la pallina si fermi, prima che la carta venga voltata, prima che i dadi si posino»: il padre infedele, da cui tenta a tutti i costi di prendere le distanze, la madre fin troppo accudente, morta di una demenza che lui teme di aver ereditato; gli amici che ha perso per sfortuna o vigliaccheria; le donne che ha amato male. E Aubrey, la sua creatura, piena di rabbia e oscure rivendicazioni. E dire che di solito Gerry è capace di vedere i rapporti umani in modo lucido e disincantato, proprio questa è la sua dote di scrittore: «Afferrava il sottotesto del presente, vedeva le correnti e quello che succedeva sotto. Il matrimonio dei suoi genitori lo aveva attrezzato a farlo». Stavolta, il sottotesto gli sfugge, chiama persino l’investigatrice privata Tess Monaghan - creata da Lippman nei libri precedenti - ma lei rifiuta di prendersi carico del caso, che si srotola in un crescendo di sangue e incubi. La salvezza, Sherahzade insegna, passa sempre per una storia: «e poi la pallina trova la sua fessura e la storia, così come è iniziata, finisce».
L’INTERVISTA
Lo insegna Sherazade, le storie salvano la vita. «Ma la possono anche distruggere» ammonisce Laura Lippman. Bionda, energica, brillante come i suoi thriller dai finali inaspettati, Lippman è una magnifica «boomer» sposata con David Simon, ex collega al Baltimore Sun e autore della serie cult The Wire. A casa loro, ci s’immagina, le storie non mancano. «Amo le storie, e non bisogna mai sottovalutarne il potere - sorride lei con sguardo azzurrissimo, ingannevolmente angelico -. In fondo sono il modo in cui diamo un senso a ciò che accade. Sicuramente una storia può salvare la vita, penso al libro di Leslie Jamison, Rinascere, alcol, intossicazione e storie di guarigione, che aiuta davvero a superare una dipendenza. Ma le storie sbagliate, quelle che distorcono i fatti, sono pericolose».
Lei era una cronista, qual è il suo rapporto con realtà e fantasia? Come lavora la sua immaginazione?
«La fantasia mi viene più naturale della realtà, così naturale che mi è sempre molto chiaro che cosa è vero e cosa non lo è, mentre, ahimè, ho conosciuto reporter che inventano le notizie. Mi piace pensare di capire la funzione dell’immaginazione nelle nostre vite: è innocua finché la riconosciamo per quello che è, immaginaria. Da piccola fingevo di essere un unicorno, ma ho sempre saputo che non lo ero».
Le manca il giornale?
«Mi mancano i colleghi ma non mi manca il lavoro in redazione. Benché nella vita personale io sia una persona socievole, nel lavoro sono una solitaria. Mi piace lavorare per conto mio, con il mio ritmo, non dover rispondere a nessuno. Come temperamento sono adatta alla vita di una scrittrice».
Il suo protagonista è un uomo di successo ma non molto felice. Qual è il suo rapporto con il successo?
«Credo di avere una relazione sana con il successo. Ne voglio solo un po’ di più, ma se qualcuno mi dicesse oggi “No, hai avuto tutto il successo che potevi aspettarti”, lo accetterei».
Il libro parla di solitudine e isolamento, temi molto attuali durante la pandemia. Come ha vissuto questo periodo?
«Sono abituata da una ventina d’anni a lavorare in casa, quindi avevo già in atto un sacco di abitudini e strategie di supporto online che mi hanno aiutato nel lockdown. Sono abituata all’amicizia virtuale - Twitter Facebook. E mi piace parlare al telefono mentre faccio lunghe passeggiate, il che mi permette di stare in contatto con i vecchi amici lontani e anche farmene di nuovi. Certo, la pandemia mi ha costretto a lavorare in casa insieme con mia figlia che faceva didattica a distanza... il che ha significato svegliarsi molto presto per ritagliarmi momenti tutti per me».
Descrive con ironia la sua esperienza di madre a 50 anni. Qual è il suo atteggiamento nei confronti dell’età?
«Mi sono stati risparmiati nella vita un sacco di “ismi”, il mio problema principale è stato gestire il sessismo nella mia vita lavorativa. Ora incomincio a provare sulla mia pelle l’ageism e mi lascia stupefatta. A dire la verità mi piaccio molto di più oggi che quando ero più giovane».
Gerry è il tipico boomer, l’antagonista è una millennial. I rapporti tra generazioni sono peggiorati?
«Vedo una certa tensione fra generazioni, ma di solito coinvolge persone che non hanno amici di età diverse. Da parte mia, conosco un sacco di giovani e mi tengono con i piedi per terra, mi ricordano i privilegi economici di cui ho goduto come conseguenza del periodo in cui sono nata».
Il suo protagonista è molto critico sui social media, lei invece li usa volentieri. Hanno cambiato le nostre relazioni? E il nostro modo di leggere?
«Gerry è il mio opposto in molte cose. I social media non sono il male, io amo Twitter, meno Instagram e ho smesso di usare Facebook. Tengo sempre a mente che sono pericolosi per uno scrittore: per prima cosa, stai condividendo il tuo lavoro gratis (se un tweet si può considerare lavoro). Inoltre, quando stai lavorando da un anno in solitudine a un romanzo, è una tentazione fortissima dire qualsiasi cosa sui social, per ottenere una qualsiasi risposta. Quando sono tentata, posto una foto della mia camminata all’alba e poi cerco di tacere. E evito le litigate».
Gerry è anche critico sullo strapotere della cultura del cibo nella nostra epoca. È un’idea che lei condivide?
«La mancanza di interesse di Gerry nel cibo come esperienza sensuale è il miglior indicatore del fatto che lui sia una persona piena di problemi».
Non le è molto simpatico il suo personaggio vero?
«Mi piace abbastanza, ci sono cose in cui andiamo d’accordo, come i libri, e altre meno, come appunto il cibo. Gerry è brillante e intelligente e se fosse una persona reale ci andrei a cena volentieri, diciamo una volta al mese».
Gerry ha un grosso problema con suo padre.
«Vale per tutti, la figura dei genitori è il modo in cui misuriamo la vita. Lui ha improntato la sua vita cercando di essere meglio di suo padre, che è un bugiardo incallito, ha due famiglie parallele. Ma se anche Gerry non mente agli altri, mente a se stesso, e credo che le persone convinte di essere buone siano abbastanza terrificanti».
Un personaggio dei suoi libri è Baltimora. Perché la ama?
«La amo perché è casa, è impressa nel mio animo fin dall’infanzia. Non è sempre un posto facile in cui vivere e certo non è perfetta. Ma è stata molto buona con me e cerco di contraccambiare».
Lei usa molte citazioni letterarie, è una forte lettrice? Quali i suoi autori favoriti?
«Sono una forte lettrice anche se la pandemia paradossalmente ha ridotto le mie letture, nel lockdown la mia capacità di concentrazione è andata kaput! Philip Roth ha avuto una profonda influenza nei miei anni di formazione - non nel modo in cui scrivo ma nel modo in cui penso il romanzo. Ma ammiro così tanti scrittori che è difficile nominarli tutti. Ho un affetto particolare per Theodore Dreiser, che scriveva frasi goffe ma capiva così bene l’animo umano. Uno dei miei podcast preferiti è Marlon and Jake Talk about Dead People (si tratta dei dialoghi letterari tra lo scrittore Marlon James e il suo editor, Jake Morrisey) e trovo che sia molto furbo parlare solo dei morti, molto più difficile mettersi nei guai. Così parlerò solo dei morti e non ne parlerò mai male».
Ha sempre amato i gialli?
«Sì, ho sempre letto detective stories. James M. Cain (quello del Postino suona sempre due volte e di Mildred Pierce) era il mio preferito, anche se forse è più noir che giallo».
Viviamo nell’era delle serie tv. A lei piacciono? O preferisce il cinema? Apple tv sta preparando una serie dai suoi libri, lavorate insieme?
«Amo la tv! Amo il cinema! Amo tutti i tipi di storytelling e non voglio dover scegliere. Mi fido dei produttori, sceneggiatori e registi della Signora del lago, so che faranno un ottimo lavoro. Io preferisco stare a guardare e non lavorarci, la tv è un media così diverso, la lascio fare a chi la conosce. Come mio marito, David Simon».
È anche l’era del politically correct. Troppo? O necessario per cambiare le cose?
«Non so, mi sembra che la gente preoccupata per il politically correct non sopporti di essere contraddetta, voglia poter dire quel che pensa senza critiche. In fondo ci viene solo chiesto di pensare un po’ di più a quello che diciamo. La cosa importante è ammettere che alcuni errori sono in buona fede. Ho avuto un’esperienza interessante quando per fare la spiritosa ho twittato la foto di un segnale stradale con un errore grammaticale in inglese. Qualcuno mi ha scritto privatamente per dirmi: “Chi ha fatto questo errore probabilmente non parla inglese dalla nascita. So che lei non è in mala fede ma non è il momento buono per prendere in giro gli asiamericani che sono già nel mirino”. Ecco, le critiche bisognerebbe farle sempre così: in privato, accordando il beneficio del dubbio».
Gerry parla di Zeitgeist, spirito del tempo, anche se lui preferisce definirlo «sottotesto del presente». Qual è il sottotesto del nostro presente?
«Il rumore. Tutti urlano, tutti vogliono essere ascoltati, dire la loro. Non è così male, in realtà, ma è difficile da gestire. Io ho sempre avuto il privilegio di dire la mia quindi sicuramente non voglio giudicare, e capisco che ci siano delle sensibilità esasperate da parte di chi non è mai stato ascoltato. La storia della civiltà è anche una storia di oppressione. Ma spero che prima o poi si raggiunga un nuovo equilibrio e diminuisca l’aggressività generale».
Nei suoi libri c’è sempre una sorpresa finale. Perché?
«La sorpresa è il mio modo di giocare con il lettore. È spesso una sorpresa anche per me, non sempre so esattamente come andrà a finire la storia, anche stavolta avevo immaginato un finale diverso ma questo mi si è imposto. Io mi impegno a dare tutti gli elementi per cui un lettore può capire da solo come finirà la storia: è come una conversazione fra me e il lettore. Il libro, in realtà, è la cosa più interattiva che esista».