Tuttolibri, 2 aprile 2022
Su "Lettere e discorsi. Testo greco a fronte" di Giuliano l’Apostata (Bompiani)
«Alcuni sono appassionati di cavalli, altri di uccelli, altri di fiere; a me, invece, fin da piccolo, è entrato dentro un desiderio struggente di possedere dei libri».
Uno dei motivi che spiegano la plurisecolare fortuna dell’imperatore Giuliano, meglio noto come Giuliano l’Apostata, è una passione vibrante per i libri, la lettura e la scrittura che sembra aver scandito ogni momento della sua breve esistenza. «Combatteva come se non avesse mai nulla da fare e viveva in mezzo ai libri come se fosse stato lontano dai campi di battaglia» - così scrive il retore Libanio, che fu suo estimatore e amico; alle battaglie e alle cure dello stato alternava gli studi di filosofia e aveva le dita sempre nere d’inchiostro, perché libri e carte lo seguivano ovunque, «come un’ombra».
Chi fu veramente Giuliano? Pochi personaggi della storia dell’antichità hanno parlato e fatto parlare tanto di sé. Nipote di Costantino il Grande, nato nel 331 e rimasto presto orfano a seguito di una congiura di palazzo, ricevette un’educazione cristiana per poi apostatare, ovvero rinnegare il cristianesimo, a circa vent’anni. Trascorse oltre metà della sua vita a contatto con retori e filosofi, tuttavia, chiamato inopinatamente al potere in un territorio difficile come le Gallie, riportò una memorabile vittoria sugli Alamanni e, forte dei consensi ottenuti, osò muovere contro il cugino, l’imperatore Costanzo II. Divenuto unico Augustus, in diciotto mesi mise in atto un grandioso progetto di restaurazione dell’impero che prevedeva, in una società già cristiana, il ritorno al culto degli antichi dèi; al contempo organizzò, senza risparmio di risorse, una spedizione contro lo storico nemico persiano nel corso della quale trovò la morte, nel 363, a poco più di trent’anni. Una parabola esistenziale folgorante la sua, che è documentata, per noi, da un’eccezionale quantità di testimonianze.
Eppure, nonostante la mole dei dati disponibili, Giuliano è stato e resta a tutt’oggi un rompicapo storiografico. A ben vedere, è il fascino stesso che promana dal personaggio - ultimo pagano sul trono dei Cesari - che ha contribuito a creare intorno alla sua figura un effetto-alone che si è dilatato attraverso i secoli, prolungandosi nelle invettive dei Padri della Chiesa, che ne fecero l’Anticristo, e negli entusiasmi di tutti coloro che in ogni epoca (da Lorenzo il Magnifico a Voltaire, a Merežkovskij, a Vidal) lo ammirarono e in lui si identificarono, dedicandogli biografie, drammi, romanzi.
Ma il mito dell’Apostata è cosa diversa dalla verità storica sull’imperatore. E l’esattezza della ricostruzione storica è il primo degli obiettivi che si propone la recente traduzione di tutti gli scritti di Giuliano, realizzata per la Bompiani, nella collana dei classici greci de Il pensiero occidentale. Per la prima volta insieme, le Lettere e i Discorsi dell’ultimo dei costantinidi, accompagnati da un commento letterario e storico-filosofico, dipanano dinanzi al lettore gli elementi dell’affaire Julien, in tutta la sua complessità. Giacché accostarsi a Giuliano, per quanto lo si dimentichi spesso, per via di quell’effetto-alone cui sopra si accennava, significa fare i conti non solo con il nemico della Chiesa, l’appassionato difensore del paganesimo, il nostalgico sognatore di un mondo ormai perduto. Significa, anzitutto, incontrare uno scrittore raffinato, «innamorato dei discorsi»; soprattutto, significa misurarsi con un interprete lucido e consapevole della società del IV secolo.
L’originalità della scrittura giulianea è un dato che può, a prima vista, apparire sorprendente, trattandosi di un autore legato alle convenzioni retoriche proprie del gusto letterario tardoantico. Non sfuggì, però, al genio di Leopardi, che apprezzò la verve di testi come il Simposio, brillante (e spietata) rassegna di imperatori compiuta «a mo’ di scherzo serio» da un altro imperatore, oppure come L’odiatore della barba (Misopogon), autoritratto ironico che diventa satira feroce di una città indisciplinata; ancora oggi, inevitabilmente colpisce chi, sfogliando le pagine giulianee, si trovi a constatare la grande varietà di stili sperimentati dall’autore passando da una lettera all’altra, da un discorso all’altro e spesso anche all’interno di uno stesso scritto.
Senza dubbio la prosa di Giuliano è complessa, quasi mai immediatamente perspicua. Ma la sua complessità non è sinonimo di oscurità; è, piuttosto, l’esito di sofisticate letture, di conversazioni colte, l’espressione di un dialogo ininterrotto (fatto di richiami espliciti, allusioni, variazioni) con i testi classici, greci e latini, e con maggiori esponenti dell’intellettualità pagana e cristiana del tempo. In questo senso la sua opera è realmente, concretamente politica: attraverso la scrittura, che è per lui un prolungamento e un inveramento dell’atto di governo, Giuliano reagisce ai mille stimoli offerti da una società dinamica, interattiva, molteplice. Una società in cui costante è la minaccia di disgregazione dovuta ai tanti problemi economici e militari, profonda la crisi spirituale; in cui il cristianesimo è, sì, diffuso, ma molti restano ancora pagani e tantissimi sono gli incerti, i cristiani tiepidi, i criptopagani, in bilico fra una religione e l’altra a seconda delle circostanze e delle necessità.
A questa realtà contraddittoria e disarticolata (per alcuni aspetti non troppo dissimile dalla nostra) l’imperatore oppone un forte richiamo all’unità: della legge, della cultura e della religione. Di qui la sua propaganda in favore dell’Ellenismo, termine in sé difficile da definire, che sarebbe banalizzante appiattire su una meccanica equivalenza con il paganesimo: si tratta invece di una maestosa costruzione filosofico-politico-religiosa, in cui tutti i popoli che compongono il mosaico dell’impero possono riconoscersi e convivere in armonia, tutelati come sono dal dio Helios, che coordina le altre divinità e custodisce il senso dell’universo e della storia, e dall’imperatore, che di Helios si proclama «seguace». Solo all’interno di questo orizzonte di pensiero trovano giustificazione gli aspetti più appariscenti della restaurazione giulianea, dalla riapertura dei templi pagani al ripristino dei sacrifici, dalla riorganizzazione del sacerdozio ellenico al famigerato bando degli insegnanti cristiani dalle scuole: scelte ispirate non da un fanatismo settario, ma da una volontà coerente e razionale di svolgere appieno il proprio compito al servizio dello stato, sentito come una missione, inviata dagli dèi. «Ama i tuoi sudditi come noi amiamo te».
E fra i sudditi di Giuliano vanno inclusi i cristiani stessi, ormai divenuti una componente ineliminabile della società: «bisogna istruire, non punire quelli che non ragionano», mostrare loro «la via migliore». Non sono molti, nella storia, gli esempi dei capi di Stato che scelgono la forza del discorso, e non quella delle armi, per rivolgersi ai loro nemici di religione e di partito. Da questo punto di vista, allora, Giuliano ha qualcosa da insegnare anche ai nostri tempi.