Avvenire, 10 aprile 2022
Lettera di un’abitante di Irpin
«Mi chiamo Zoya Illnytska, ho 48 anni, sono sposata con Roman e ho tre figli di 22, 16 e 11 anni. Abito nella parte vecchia di Irpin, a ridosso di Kiev. Ora, però, mi trovo a 260 chilometri di distanza, a casa dei miei genitori. Sono partita il 25 marzo, è stato mio marito ad insistere: non dormivo da venti giorni. Ogni notte mi svegliavano gli incubi. E mi svegliano ancora anche se finalmente c’è silenzio. Ho tanto desiderato il silenzio: a Irpin il rumore degli spari dell’artiglieria era incessante». Comincia così la lettera virtuale inviata ad Avvenire da questa agente immobiliare che ha vissuto per venti giorni sotto il fuoco russo: appena dopo la sua partenza, il 28 marzo, l’esercito di Mosca si è ritirato dalla cittadina di 60mila abitanti. «Che cosa provo ora? Non posso dire gioia, perché la guerra non è ancora finita. Almeno, però, so che mio marito non rischierà di essere colpito da un proiettile mentre aiuta gli altri ad evacuare». Dall’inizio dell’offensiva di Mosca su Irpin, il 5 marzo, Zoya e Roman, cristiani battisti, hanno aiutato la chiesa ad organizzare gli aiuti per gli sfollati. «Alcune centinaia dormivano nel piano interrato dell’edificio, altri venivano a chiedere cibo perché i supermercati erano ovviamente chiusi. Io cucinavo per tutti e preparavano i pacchi di cibo per quanti non riuscivano a venire. Mio marito, insieme ad altri uomini, li distribuiva e organizzava le evacuazioni di chi voleva fuggire per l’unica via che i russi ci avevano lasciato: il ponte in rovina. Da lì abbiamo fatto passare i nostri figli nei primi giorni di scontri. Un’ora dopo che lo avevano attraversato, i russi hanno attaccato e hanno ucciso otto profughi. Uno di loro era un volontario della chiesa: stava aiutando gli altri a lasciare la città. Dopo quell’episodio, la gente aveva paura di scappare ma noi cercavamo di convincerli, era diventato troppo pericoloso restare. Perché non sono andata via anche io? Volevo dare una mano. C’era troppo da fare. Poi è accaduta una cosa strana. Il primo raid ha colpito la mia casa. Ci siamo salvati perché, in quel momento, eravamo in chiesa. Non era previsto: avevamo fatto tardi e il coprifuoco ci aveva bloccati. L’ho visto come un segno. Così sono rimasta, fin quando ho retto». Dal 7 marzo, l’esercito del Cremlino ha tagliato i rifornimenti di acqua, gas e elettricità. «La chiesa ha un generatore e questo ci ha salvato. Dovevamo, però, razionare le scorte di carburante. Lo accendevamo tre volte al giorno per un’ora, durante la quale ci affrettavamo a caricare i telefoni e cucinare. Il tempo non era sufficiente per scaldare l’intero edificio e faceva sempre freddo. Sempre».
Gelo e rumore sono stati una presenza oppressiva costante nelle lunghe giornate di Zoya, trascorse tra fornelli, pacchi e divisioni improbabili delle riserve alimentari per non far mancare a nessuno il cibo. «In altre città è andata peggio. A differenza di Bucha, Irpin non è mai stata conquistata in modo definitivo. I russi ne controllavano un trenta per cento, la parte nuova, dove vivono i più ricchi, quasi tutti scappati nelle settimane precedenti. I pochi rimasti si sono barricati negli scantinati. Eppure, nonostante questo, vari civili sono stati uccisi. Roman ha visto i loro corpi per strada perché ne ha aiutato vari a fuggire: ha rischiato moltissimo. Io no, non ne ho visti perché non uscivo mai. Per fortuna, altrimenti non mi sarei mai più tolta quelle immagini dalla mente. Per questo, ora, non riesco a guardare le foto di Bucha. Magari un giorno, non lo so, quando questo incubo sarà davvero finito».