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 2022  aprile 10 Domenica calendario

La Stalingrado di Vasilij Grossman


L’articolo più celebre di Vasilij Grossman, come si sa, s’intitola L’inferno di Treblinka: pubblicato nel 1944 sulla rivista Znamja, fu tradotto in tedesco e diffuso come documento durante il Processo di Norimberga. «Parsimonia, precisione, oculatezza, attenzione maniacale alla pulizia sono caratteristiche tutt’altro che negative», scrive Grossman in quel pezzo. «Se applicate all’agricoltura o all’industria danno il giusto frutto. L’hitlerismo le applicò ai crimini contro l’umanità: le SS nel campo di lavoro polacco agivano come se stessero coltivando patate o cavolfiori». Benché i nazisti considerassero i prigionieri meno che cavolfiori, cose da estirpare, da schiacciare, da divorare, Grossman riconosceva nell’inerme una indefettibile nobiltà: «L’uomo ucciso dalla bestia conserva fino all’ultimo suo respiro forza d’animo, mente lucida e cuore ardente. Mentre la bestia trionfante che lo uccide resta comunque una bestia».
Nato a Berdicev, cresciuto a Kiev, Grossman aveva studiato chimica, contro voglia, a Mosca. Il talento letterario non faticò a emergere: grazie a Maksim Gor’kij, nel 1934, pubblica Gljukauf, un testo che racconta la vita dei minatori nel Donbass; fino al 1940 lavora a Stepan Kol’cugin, che rischia di entrare in lizza per il Premio Stalin. Sarà comunque come inviato di guerra, dal 1941, per Krasnaja Zvezda, che Grossman otterrà il successo. Energico, capace di individuare la peculiarità dell’individuo sotto la coltre dei moti di massa, «di classe», Grossman aveva avuto qualche problema con il regime staliniano. Nel 1938 i servizi arrestano Ol’ga Michajlovna, la seconda moglie, in seguito alla fucilazione dell’ex marito di lei, Boris Guber, dichiarato «nemico del popolo». Grossman adotta i figli della donna, avuti da Guber, scrive una lettera al capo dell’Nkvd, il temibile Nikolaj Eov – «Ho una fede incrollabile nell’umanità delle nostre leggi» -, si fa sottoporre a interrogatorio. La moglie, infine, viene rilasciata.
Il vero articolo della svolta, tuttavia, non è quello su Treblinka; s’intitola Ucraina senza ebrei. «Non ci sono ebrei in Ucraina. Da nessuna parte, in nessuna città... Nulla si muove. Un intero popolo è stato brutalmente assassinato». Grossman lo firma nel ’43 per Krasnaja Zvezda, come sempre. «Mi sembra che nell’epoca crudele e terribile nella quale la nostra generazione è stata condannata a vivere su questa Terra, non dobbiamo mai accettare di venire a patti con il male», scrive, tra l’altro. «Non dobbiamo mai diventare indifferenti nei confronti degli altri e indulgenti nei confronti di noi stessi». L’articolo, crudo e impeccabile, viene rifiutato, ed edito, in yiddish, su Einikeit, organo del Comitato Antifascista Sovietico Ebraico. Dello sterminio degli ebrei perpetrato in Unione Sovietica occorre tacere. Da quell’anno, insieme a Il’ja Erenburg, Grossman lavora all’immane Libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945: l’opera è sequestrata nel 1948, mentre sta per andare in stampa, e i membri del Comitato Antifascista arrestati con l’accusa di alto tradimento e «nazionalismo ebraico».
Per una giusta causa, il romanzo pubblicato nel 1952, è per Grossman una specie di consacrazione, il libro del riscatto. Non mancano le critiche, feroci, da parte dell’intelligenza obbediente a Stalin. «Uno sputo in faccia al popolo russo», lo definì Michail Bubennov, romanziere di regime, oggi inacidito nell’oblio. Del popolo russo, invece, Per una giusta causa è il sunto omerico, il mito, l’epifania: ne descrive «l’ora della tempesta e della gioia». Riscritto più volte – almeno cinque – per scansare i livori della censura, è stato ricomposto, riaffermato e pubblicato, con il titolo voluto dall’autore, Stalingrado, da Robert Chandler, per il mondo inglese, nel 2019. Fu un evento, la scoperta, eclatante, di «Un Guerra e pace del XX secolo» (così il titolo del Telegraph); con gli stessi criteri viene oggi edito da Adelphi, nella traduzione di Claudia Zonghetti (pagg. 884, euro 28).
Il romanzo, che racconta l’invasione dell’Unione Sovietica ordita dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, si apre con un dialogo teso, inquietante, tra «i due sedicenti padroni d’Europa», Hitler e Mussolini. Il duce pare preconizzare il disastro. «Il successo e il potere di Hitler non finivano di stupire Mussolini. C’era qualcosa di irrazionale nei trionfi di quello psicopatico boemo, e in fondo al cuore Mussolini li riteneva un’aberrazione e un malinteso della storia mondiale». Se Vita e destino, del 1959, narra il cuore del popolo sovietico, Stalingrado ne è il corpo, il pugno; l’uno è la continuazione dell’altro, il corrispondente negativo, l’altra faccia, la notte oscura, il requiem. In Stalingrado domina la guerra, abbacinante – «La morte avanzava, ma lui l’affrontava a viso scoperto. ora, il suo secondo, era stato ammazzato; una scheggia si era portata via il comandante Konanykin qualche minuto prima dell’attacco dei panzer, e il comandante della sua squadra stava esalando gli ultimi respiri sotto una montagna di mattoni, senza poter più dare ordini né emettere un suono. Lui, invece, era ancora lì col suo fucile. A chi avrà pensato in quei momenti? Ai suoi genitori? Non li aveva mai conosciuti» -, Vita e destino è domato da una cupa compassione.
Due anni prima della pubblicazione di Stalingrado, per il nono anniversario del massacro perpetrato a Berdicev dai nazisti, Grossman scrive una lettera straziante alla madre, uccisa nel 1941 insieme ad altri ventimila ebrei. «Ho provato a immaginare il tuo assassinio dozzine e forse centinaia di volte e il modo in cui sei andata incontro alla tua fine. Ho provato a immaginare l’uomo che ti ha uccisa. È stata l’ultima persona che ti ha vista viva. So che hai pensato a me per tutto il tempo... Il tempo non ha alleviato il dolore». Questa lettera va letta insieme all’altra, scritta da Grossman ma ascritta ad Anna trum, incorporata in Vita e destino. Al figlio Viktor, Anna racconta gli ultimi giorni di vita: «Eppure, malgrado tutto, la gente continua a vivere... Come posso finire questa lettera? Dove troverò le forze figlio mio? Ci sono forse parole d’uomo in grado di esprimere il mio amore per te? Ti bacio, bacio i tuoi occhi, la tua fronte, i capelli». Proprio nell’istante dell’abisso, l’uomo capisce ciò a cui è destinato, che la sua singolarità ha una potenza inestirpabile, che nulla, allora, anche nel sottosuolo di una solitudine che disorienta, è vano. Con parole analoghe a quelle usate da Anna – «Scrissi del mio amore per gli esseri umani e della mia solidarietà con il loro dolore» -, Grossman difenderà il suo romanzo al cospetto di Nikita Chrucëv (diversi documenti su La vita e il destino di Vasilij Grossman sono raccolti in: John e Carol Garrard, Le ossa di Berdicev, Marietti 1820, 2009; 2020). Rifiutato dai giornali, sequestrato dal Kgb nel 1961, Vita e destino vedrà la luce nel 1980, in Svizzera, presso L’Âge d’Homme; Adelphi ne ha da poco stampato una versione «ampliata» (pagg. 982, euro 16).
Alienato dal regno sovietico, Grossman muore nel settembre del 1964, senza avere notizie del suo manoscritto; un burocrate, Michajl Suslov, «responsabile del Partito per le questioni ideologiche», aveva accettato di incontrarlo il 23 luglio del 1962. Liquidò la questione con poche parole: «Il suo lavoro è pericoloso per il popolo sovietico... farebbe il gioco del nemico... Lei si è semplicemente isolato». Grossman rimarcava la preminenza della persona, la sua singolarità, sull’ideologia, osava avanzare «confronti diretti tra noi e la Germania nazista» ed esprimersi «benevolmente nei confronti della religione, di Dio, del cattolicesimo».
In Tutto scorre... (pubblicato postumo, in Germania, nel 1970), Grossman, ormai avulso dal meccanismo sovietico, svela il carisma, brutale, della Russia: se «la storia dell’umanità è la storia della sua libertà... lo sviluppo russo ha mostrato una sua strana essenza, si trasforma in sviluppo della non-libertà». In particolare, la tragedia russa s’incardina in Lenin – «prepotente, autoritario, spietato, follemente ambizioso, dogmaticamente tonitruante» – e fiorisce in Stalin, il capo che riassume in sé i caratteri del «satrapo asiatico» («nella sua incredibile ferocia, nella sua incredibile perfidia, nella sua capacità di fingere e far l’ipocrita, nel suo livore e nel suo spirito di vendetta, nella sua volgarità») e del marxista integrale. Il sangue degli innocenti è salubre sacrificio, necessario a oliare l’apparato di Stato. Eppure, benché «la storia della vita non è che una storia di indomabile violenza», resta l’uomo, frantume estenuato ma «pur sempre quello di una volta, indomabile», prono all’errore, pronto al riscatto. Essere uomo quando intorno è il massacro e la caustica, caotica obbedienza dei codardi, un dicastero di chiacchiere: eccola, la vera sovversione, la rivoluzione.