la Repubblica, 10 aprile 2022
La grande corsa dei prezzi
Bella, no. Temporanea, neanche. Giunta al picco, con ogni probabilità, nemmeno: mese dopo mese, l’inflazione sta mostrando artigli e determinazione. Confermando il vecchio adagio, secondo cui la corsa dei prezzi è come il dentifricio: una volta uscito dal tubetto è difficilissimo rimetterlo a posto. Siamo a questo punto? L’ultimo dato dell’Istat di marzo, ancora provvisorio, dice +6,7%, al top dal 1991: un’ondata che parte dalle bollette (+59,2% i beni energetici), ma si allarga anche al “carrello della spesa”, che sale del 5%. Potrebbe arrivare fino all’8% nello scenario peggiore di Bankitalia, con un blocco alle importazioni di gas russo. L’invasione dell’Ucraina ha provocato una nuova scossa ai prezzi, in aggiunta alla “crisi da ripresa” che il mondo post-Covid già stava vivendo, con troppi soldi da investire e tanta voglia di rifarsi dalla recessione virale.
In un anno appena il mondo si è rovesciato, riportando alla memoria i tempi degli shock petroliferi – sempre loro – degli anni ‘70, quando l’inflazione toccò punte del 20%. Nessuno oggi si aspetta di vedere cifre simili. Eppure in molti sono convinti che l’impennata non sia finita. Per capirne il motivo bisogna percorrere le filiere produttive, la cinghia di trasmissione dei prezzi, dai campi di pomodoro, passando per l’industria di trasformazione, fino alla scatola di pelati al supermercato. Le evidenze sono due: gli aumenti non sono ancora tutti “a regime” e, nello stesso tempo, i diversi anelli della catena, gli imprenditori, temono di non riuscire a recuperare i maggiori costi. E così i rincari non si sono ancora del tutto manifestati alla fine del percorso, nel portafoglio dei consumatori. «C’è una inflazione ancora non trasmessa interamente dalla produzione al consumo», spiega Stefania Tomasini, economista e senior partner di Prometeia, «il picco non c’è ancora stato».
Dai rincari non nasce niente
Quindi è dal principio, dalle campagne, che bisogna partire. Sandro Passerini è il titolare con il fratello dell’azienda agricola Cirenaica, sul fiume Ticino che divide le province di Milano e Novara. Alleva 580 suini e una trentina di bovini dell’antica razza Varzese, coltiva frumento e cereali per alimentarli, e ha un salumificio. Dal computer stampa alcune fatture: la crusca costava 12,8 centesimi al chilo a ottobre del 2020, a febbraio scorso il prezzo è salito a 20,1. La farina di soia era a 52 centesimi, diventati 72,5 a fine 2021. «L’ho appena ordinata a 1,08 euro», aggiunge. E anche un’azienda agricola soffre per l’energia. «L’elettricità è rincarata almeno del 40%. In zootecnia utilizziamo molto il gas, ad esempio per il riscaldamento delle ‘sale parto’ dei suini: siamo passati da 45-55 centesimi al metro cubo a 80-90 centesimi durante l’ultimo inverno. Avremo una riduzione di almeno il 10% della capacità produttiva delle aziende agricole, e il guadagno scenderà di almeno il 30%».
Proprio dall’energia, elettricità e gas, è cominciata l’ondata inflattiva. E ora la crisi ucraina rappresenta un’incognita difficile da decifrare. Passerini ha in casa parte della soluzione: «Abbiamo un impianto fotovoltaico che copre il 70% del fabbisogno», racconta. «E con la legna dei boschi che abbiamo acquistato autoproduciamo una quota simile all’energia termica che ci serve». Senza dimenticare «la filiera interna di coltivazione dei cereali: l’alimentazione dei suini avviene per oltre due terzi con le nostre materie prime». Effetti del grande shock: molti imprenditori, non solo agricoli, stanno spingendo al massimo l’auto-produzione. Una sorta di autarchia, difficile però da replicare quando la scala diventa nazionale. «I prezzi alla produzione stanno già riflettendo l’aumento dei costi: stanno crescendo più del 15% anno su anno – spiega Tomasini di Prometeia – e possiamo aspettarci ulteriori aumenti nei prossimi mesi, se i prezzi dell’energia rimarranno su questi livelli».
Dalla Lombardia alla Puglia: Michele Ferrandino è un produttore della Cia in Capitanata, un’area da cui arriva oltre la metà del pomodoro del centro-sud. «Le cose stanno cambiando a un ritmo tale da mandare all’aria tutta la nostra programmazione», racconta. «I rincari che solitamente si spalmavano su mesi, ora li vediamo di settimana in settimana». Degli ingredienti con cui produce i pomodori, non uno è stato risparmiato: dall’acquisto della piantina («in tempi normali costava 27 centesimi, ora arrivo a pagarla 47») ai concimi, passando per ricambistica e fitofarmaci «vediamo rincari nell’ordine del 35-40%, con punte del 90%». Conclusione: per coltivare un ettaro di terreno a pomodoro «siamo passati dai 9.500 euro di un anno fa, ai 12.265 dell’autunno scorso; ora sfioriamo 16mila euro». Da qui l’allarme: «Quanto dovremmo far pagare la merce a chi ci compra il prodotto e lo trasforma? Il governo dovrebbe darci una mano, togliendo tutte le accise della benzina».
Tutto si trasforma
In mezzo a questa emergenza ogni passaggio della filiera è una lotta di spinte e controspinte: tra chi prova a scaricare – almeno in parte – a valle gli aumenti, e l’anello successivo, in questo caso l’industria della trasformazione, che cerca di resistere. Nel Sud la negoziazione sul prezzo del pomodoro industriale non è ancora nemmeno partita. Il riferimento dell’anno scorso è di 115 euro a tonnellata per la varietà più costosa, ora la parte agricola potrebbe puntare su 150. Al Nord, dove si partiva dai 92 euro del 2021, gli agricoltori chiedono 110, l’industria è ferma a 100 euro. «Il pomodoro, la nostra materia prima, pesa tra il 30 e il 35% dei costi industriali (e il 10% circa del costo finale al supermercato, ndr)», spiega Fabio Grimaldi, responsabile commerciale della Cav. Uff. Pietro Grimaldi, conservieri nel salernitano.
Nel frattempo anche tutto il resto è aumentato: «Il packaging, con i rincari della carta e del cartone, il film per gli imballaggi e la banda stagnata. Ancora peggio per il vetro, non parliamo dell’energia. Si naviga a vista, tra le difficoltà di reperire alcune materie, i rincari e la pressione finanziaria», perché i fornitori chiedono di essere pagati in meno tempo.
Fino allo scaffale
Con una pressione del genere, gli argini che trattengono l’inflazione dentro la filiera produttiva non potranno tenere a lungo. Vale anche per l’ultimo passaggio, quello dall’industria al supermercato, quindi al consumatore finale. Dove pure le grandi insegne stanno cercando di moderare, per non rischiare di perdere clienti. Albino Russo, direttore dell’Ufficio studi Coop, fa un calcolo approssimativo: tra i prezzi cui la grande distribuzione compra dai fornitori e quelli che verranno scaricati sullo scaffale ci sarà un delta negativo tra i 2 e i 4 punti percentuali a scapito della distribuzione.
L’ondata sta arrivando sul carrello della spesa, certificano i dati Istat di marzo: pane (+5,8%), pasta (+13%) e farina (+10%), per l’interruzione della filiera che riguarda l’Ucraina, ma anche il Canada; pollame (+8,4%); poi pesce (+7,6%), verdura (+17,8%) e frutta (+8,1%). Ma la pressione inflattiva che arriva dai fornitori, e la necessità per la distribuzione di non veder azzerati i propri margini, fanno capire che ancora non siamo all’acme: «In questo momento non ci sono tutte le informazioni disponibili per capire di quanto cresceranno i prezzi dei produttori e di quanto sarà possibile traslare i rincari sul consumatore, ma una cosa è certa: almeno per i prossimi tre mesi i prezzi continueranno a crescere».
Il costo per le famiglie
Per tante famiglie insomma far quadrare i conti sarà un’impresa. Qualche piccola astuzia può aiutare. «Rinviare gli acquisti non necessari», suggerisce Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori; fare “zapping” tra i punti vendita, cercando il miglior prezzo per ogni prodotto. Soprattutto, confrontare i prezzi reali (ad esempio al chilo): «Sempre più frequente è la shrinkflation, la riduzione delle quantità nelle confezioni: sembra di risparmiare, ma si porta a casa meno prodotto».
Sul fronte dell’energia, è arrivata una prima boccata d’ossigeno, con lo sconto del governo sulle accise dei carburanti (-25 cent fino al 2 maggio) e il taglio delle bollette decretato dall’Arera (l’Autority di settore): intorno al -10% per luce e gas, nel secondo trimestre. Però, tra luglio 2021 e giugno 2022, la spesa per la famiglia- tipo per la bolletta del gas salirà del 71% rispetto a un anno prima, per quella elettrica sarà l’83% in più. Il conto complessivo del caro-inflazione per una coppia con un figlio arriva fino a 2.217 euro in più in un anno, con tre raggiunge i 2.648 euro, stima l’Unione nazionale consumatori. L’inflazione è sempre una tassa regressiva – spiega l’economista Tomasini – perché penalizza le fasce di reddito più basse, ma questa lo è «particolarmente, perché colpisce bollette e alimentari, che rappresentano più del 40% del paniere di spesa delle famiglie a basso reddito e molto meno per i redditi più alti. È un’inflazione particolarmente ingiusta: andrà ad aumentare le diseguaglianze del reddito e verosimilmente le fasce di povertà».
L’ultimo anello: i salari
I più giovani questo fenomeno non l’avevano neppure mai visto: la perdita del potere d’acquisto, scoprire che con lo stipendio, anche se resta uguale, si possono comprare meno cose. Quello verso i salari è l’ultimo anello della cinghia di trasmissione dell’inflazione, ed è anche il più delicato. Il timore delle banche centrali è che si inneschi la spirale sul modello degli anni Ottanta: che un aumento delle paghe possa trasformarsi in un ulteriore moltiplicatore dei prezzi. Entro fine anno ci sarà un’importante stagione di rinnovi contrattuali, ma il rischio opposto, se i salari non dovessero tenere il passo, è vedere le famiglie impoverirsi ancora di più. «La logica dell’evitare che la spirale dell’inflazione si diffonda ai salari è sbagliata, non possiamo scaricare il peso dei rincari sui lavoratori – spiega Tania Scacchetti, segretaria confederale Cgil – anche perché veniamo già da un periodo di grave impoverimento dei salari. Non possiamo permetterci di non affrontare questo nodo. E poi bisogna rivedere alcuni indicatori su cui si basa la contrattazione, a partire dall’Ipca depurata (senza i prezzi dell’energia, ndr): non garantisce il potere d’acquisto, bisogna tener conto dell’inflazione reale». Il punto di equilibrio sarà difficile da trovare.