Corriere della Sera, 10 aprile 2022
Laura Boldrini parla del suo tumore
«Tutto è cominciato con il lockdown. Anche io cantavo l’inno sui balconi, uscivo a parlare con i vicini. Così ho conosciuto Laura Licci, osteopata. La prima persona della catena di coloro che mi hanno salvato la vita».
In che modo, Laura Boldrini?
«Da un anno avevo dolore alla gamba destra. Pensavo a un’infiammazione del nervo sciatico. E avevo troppi impegni per fare accertamenti, oltre alla tendenza tipica delle donne a trascurarsi. Laura mi convince a farmi vedere. Il medico consiglia una risonanza magnetica».
Com’è andata?
«Ricevo un sms da Gianfranco Gualdi, un professore che conosco: “Ho appena visto il suo esame, mi può chiamare?”. Penso che voglia salutarmi. E non capisco che quel messaggio mi cambierà la vita. Vado a ritirare il referto senza sospettare nulla. E lui mi avverte che probabilmente ho una lesione tumorale al femore: un condrosarcoma. Devo fare la Tac, la Pet, la Total body...».
E lei?
«Non avevo mai concepito l’idea di poter avere un tumore, nonostante la familiarità. Mia mamma ne è morta. La mattina l’ho accompagnata fino all’ascensore per la camera operatoria, ed è stata l’ultima volta che le ho potuto parlare: è andato tutto male, è finita in rianimazione, è rimasta attaccata alle macchine per due settimane, ha esalato lì l’ultimo respiro. Poi mia sorella...».
Cos’è successo a sua sorella?
«Lucia se ne è andata a 46 anni. Era molto religiosa, ha deciso di lasciare che avvenisse la volontà di Dio. Una dimensione punitiva della fede, che ho contestato sino alla fine; ma mia sorella non ha ceduto di un millimetro. Ha rifiutato anche le cure palliative».
Eppure lei...
«Ho sempre pensato che questo non mi riguardasse. E non riuscivo a prendere atto della realtà. Forse è un errore, pensavo, non sono i miei esami; o forse l’errore lo sta facendo il medico. Invece tutte le analisi hanno confermato che era davvero un tumore».
A quel punto?
«Ho cominciato a cercare informazioni on line; e a pensare a quel che poteva succedermi. Restare zoppa. Perdere la gamba. Rimanere inchiodata in un letto. Un paradosso, dopo una vita sempre improntata al movimento, le missioni in zone di guerra... Ora avevo mille ipotesi davanti a me. E mi facevano tutte orrore».
Perché ha deciso di rendere pubblica la notizia?
«Perché ho capito quanto pesano i vecchi retaggi sul tumore, che non è considerato una malattia come le altre, da cui si può guarire; è ancora un tabù, un errore di fabbricazione, una macchia indelebile. Ma la malattia è una condizione della vita. Non avevo nulla di cui vergognarmi. E ho pensato che fosse giusto parlarne, per tre motivi».
Quali?
«Contribuire a scardinare il pregiudizio che dà tanto disagio alle persone. Condividere la condizione con chi l’ha vissuta, anche per incoraggiare altri a non stare in silenzio: il silenzio isola, il silenzio deprime. Trasformare la battaglia contro la malattia in una battaglia di civiltà».
Lei vive sola.
«Ma decido di dirlo innanzitutto ai miei fratelli, Ugo, Andrea, Enrico. E a mia figlia Anastasia, che ha 29 anni e da dieci vive in Inghilterra. Vorrebbe partire subito, ma sarebbe inutile: c’è il Covid, in ospedale non la lascerebbero entrare».
Lei è amata ma anche odiata, in particolare sui social. Come hanno reagito?
«Ho ripensato al direttore della Gazzetta di Lucca, che aveva sollecitato i lettori a pregare perché prima o poi mi venisse un male incurabile, “meglio prima che poi”. Sarà stato contento. Questa aberrazione, per cui si sentono autorizzati ad augurarti la morte per mettere a tacere la tua voce, la trovo abbastanza disgustosa. Eppure è successa una cosa strana».
Quale?
«Dopo che Meloni e Salvini hanno solidarizzato con me, anche i loro follower, tranne qualche eccezione, mi hanno trattata con rispetto. La discussione ha cambiato registro, si è fatta meno feroce, meno degradata. Questo dimostra che l’esempio del leader è determinante. In passato alcuni leader hanno tentato di aizzare i propri militanti contro l’avversaria, augurandole qualsiasi cosa, usando sessismo e misoginia come strumenti politici: generalizzazioni indegne che mai dovrebbero esistere in democrazia».
Nel suo bel libro «Meglio di ieri», lei racconta il mese trascorso in ospedale, in piena pandemia.
«Anche solo essere ricoverati è difficile. Ho appuntamento al Rizzoli di Bologna il 9 aprile 2021. Faccio il tampone e devo aspettare l’esito. L’Emilia Romagna è zona rossa. Ho fame ed è tutto chiuso. Vado in un supermercato a prendere un panino con la mortadella. Per fortuna è una bella giornata, mi siedo a mangiare su un gradino in piazza Santo Stefano. Il tampone è negativo (in questi giorni invece ho avuto il Covid, ma in confronto a quel che ho passato...) e la sera entro in ospedale. Tutti i pazienti sono soli, e per comunicare hanno solo il telefonino».
Lei ha avuto tre diversi vicini di stanza.
«La prima era una donna che passava tutto il tempo gridando al cellulare in viva voce. Un po’ fastidiosa. Ma quando si è trovata da sola con me, è scoppiata a piangere. Eravamo in un reparto riservato a malattie difficili, avevamo tutti paura».
Anche lei?
«Certo. Bastava poco per avere danni irreparabili: il taglio di un nervo che genera la paralisi, l’ischemia dell’arto che può portare all’amputazione, la trombosi come quella che poi in effetti ho avuto...».
Ha pregato?
«Sì. Io ho avuto una formazione molto cattolica. Mio padre era legato a un cattolicesimo tradizionalista. Ho preso le distanze da tante cose sue, incluso quel modo di concepire la religione. Ma l’esperienza di entrare in sala operatoria ti mette a contatto con le tue fragilità, le tue ansie; e nonostante la razionalità di cui disponi, a un certo punto ti ritrovi a pregare. Sì, in quel frangente è uscito anche questo rivolgermi a Dio come all’aspirazione ultima della salvezza».
L’intervento è riuscito.
«Grazie ad Alessandro Gasbarrini: un eroe. Uno capace di operare per quindici ore di seguito. La mia operazione non è durata tanto, ma è stata complicata: il professore ha tolto 25 centimetri di femore, ha inserito una protesi di titanio da 45 centimetri, che pesa un chilo in più ed è incastonata da un lato in quel che resta del femore, dall’altro nel bacino...».
Poi la terapia intensiva.
«Dove perdi la nozione del tempo. Quando ho sentito mia figlia al telefono, la tensione si è sciolta, e finalmente ho pianto».
Al ritorno in camera, ha trovato un uomo.
«Lo sento parlare da dietro il lenzuolo che ci separa. A un certo punto inizia a vantarsi che è in camera con una donna: “Sì, è vero, sta qui accanto, è stata operata da poco e non si può muovere. Vorrà dire che questa notte dovrò fare tutto io... Ahaha”. Sono furiosa, ma come si permette di fare battute sessiste in una circostanza come questa?».
Per fortuna poi le hanno messo vicina una ragazza.
«Alice aveva appena diciannove anni, ed era già davanti alla prova della vita. Timida, dolce, sempre timorosa di disturbare le infermiere...».
Com’erano le infermiere?
«Meravigliose. Come le dottoresse, i medici, i fisioterapisti. E per cortesia nessuno dica che lo erano con me; lo erano con tutti. Non ho avuto alcun privilegio. Sia al Rizzoli, sia al Gemelli dove ho passato due settimane per la riabilitazione, ho trovato una professionalità e un’umanità straordinarie. Gente che arriva alle 7 del mattino va via alle 10 di sera. E deve affrontare casi come quello del bambino calabrese di nemmeno un anno, che aveva un tumore nella gambetta. Era in braccio a sua madre. Ripenso spesso alla disperazione di quella donna».
Lei come sta ora?
«Meglio. Ho una cicatrice di 35 centimetri che da metà coscia prosegue fino all’anca, poi piega verso destra... Camminare non è più un piacere come prima, ma con un rialzo sotto l’altra gamba, la sinistra, riesco a farlo. Quando sono tornata a Montecitorio mi hanno applaudita anche gli avversari: mi ha fatto piacere. Voglio battermi per i malati, per chi vive uno stigma che perdura dopo la guarigione, e non riesce ad accedere al credito, a fare un mutuo, a chiedere una polizza sulla vita, ad adottare un bambino. Al Senato c’è una proposta di legge della mia omonima Paola Boldrini sul diritto all’oblio: dopo dieci anni, quando non sei più a rischio, la tua malattia non deve più essere menzionata».
A un certo punto però lei ha rimproverato pure il medico che l’ha salvata.
«Ma no... Semplicemente Gasbarrini entrava nel reparto dicendo “buongiorno a tutti”. Siccome eravamo in maggioranza donne, gli ho chiesto di dire “buongiorno a tutte e a tutti”. Ha sorriso, e da allora fa sempre così».