il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2022
Intervista a Leonardo Di Costanzo
Regista e sceneggiatore, Leonardo Di Costanzo che combina?
Sono a Napoli, sto lavorando a In Progress, un progetto del Milano Film Network di sviluppo per giovani colleghi.
Di giovani è un gran intenditore: l’équipe pedagogica degli Ateliers Varan a Parigi nei primi anni 90 e il documentario A scuola del 2003. Oggi come li vede?
Be’, rispetto a prima hanno una conoscenza del cinema enorme: Internet ha aiutato. Ci sono individualità alte, un livello di riflessione che sovente mi fa dire: “Ma io che vi posso dare?”.
Avranno pure una debolezza…
Sono sensibili alle mode, come tutti i giovani. Bisogna vedere se dietro queste modalità comuni, questa atmosfera culturale condivisa ci sia uno sguardo personale.
Qual è la moda attuale?
Il documentario: come si evolve, come si riscrive. Non che abbia perso verità, giacché nel momento stesso in cui filmi non esiste più, ma documentario e finzione non sono la stessa cosa: il rapporto tra la camera e l’oggetto ripreso è differente, e così le parole. Trovo che oggi ci sia poca sensibilità nell’usare questi due linguaggi, e il salto di messa in scena si sente. I registi interessanti, penso a Michelangelo Frammartino, ne hanno piena consapevolezza, altri meno.
Il buco di Frammartino era in concorso a Venezia, ai David di Donatello non ha preso nessuna nomination. Il suo Ariaferma era fuori, ma di candidature ne ha prese 11: consolazione?
Sono sincero, di non esser stato preso in concorso ci sono rimasto male. Ma Il buco ci doveva stare, non ho dubbi. Non so se il verdetto intermedio dei David sia una restituzione… Il problema semmai sono i grandi festival, ci sono persone, i selezionatori, che liberamente scelgono chi e dove, e la loro influenza sulla vita di un film, sopra tutto all’estero, può essere enorme.
Avverto un ego ferito.
Quello passa subito, altro meno: un lavoro come Ariaferma con due grandi attori, quali Silvio Orlando e Toni Servillo, messo fuori concorso veicola l’idea di film sbagliato, che “non ci vado a vederlo”. Non voglio fare la vittima, il sistema è quello, le persone decidono, ma il percorso è stato segnato. Non che sia una novità: mi era già successo con L’intervallo.
Era il 2012, vi ottenne il David quale migliore regista esordiente: a 54 anni. Solo in Italia?
(Ride) Magari, è così ovunque: i documentari non sono considerati cinema. Lo dissi sul palco, “ora dovrò spiegare a mia madre, mia moglie e mio figlio che ho fatto in questi ultimi vent’anni…”.
Altro che doc, un genere figlio di un dio minore.
La penetrazione nella vita del documentario la finzione se la sogna, ma il divario ontologico ha fatto sì che molti documentaristi usassero proprio la finzione, perdendo forza.
Torniamo alle 11 nomination.
Sono contento e, non dovrei dirlo, me l’aspettavo: Ariaferma è uscito a ottobre, ma ha lunga vita, ricevo ogni giorno messaggi di spettatori grati.
Orlando e Servillo hanno aiutato, eppure è candidato solo il primo.
Mi creda, sono più dispiaciuto io di Toni, che sia sceso da questo treno: è stato una spalla, un fratello sul set. Mentre giravamo, il New York Times lo mise tra i dieci attori più importanti del XXI secolo: altri, tutti, avrebbero fatto la coda di pavone, lui no. È ligio: gli interessa solo il lavoro.
Però il derby Napoli-Caserta l’ha vinto la squadra di casa: Orlando.
Nessuna rivalità. Nutrivano stima reciproca, ma si conoscevano poco: si sono trovati, stavano sempre insieme, e mi invitavano a mangiare fuori con loro nel weekend. Non ho trovato solo grandi attori, ma persone con un percorso comune.
Dopo Ariaferma, che farà?
Ho tre, quattro cose sulla scrivania, e d’abitudine ho bisogno di molto tempo per convincermi a una nuova avventura. Diciamo che è molto probabile mi occupi nuovamente del mondo della giustizia: la colpa, il rapporto tra bene e male, continua a interrogarmi.
Questa sera alla XX edizione del Baff di Busto Arsizio riceverà due premi: miglior film e miglior sceneggiatura per Ariaferma.
Ne sono felice, è un’altra conferma che il film parla alla gente, che s’è fatto apprezzare.
E il 3 maggio ci sarà la cerimonia dei David: chi teme di più?
Nessuno, nel senso che non competo: quel che dovevo fare l’ho fatto. Non è una partita di pallone, una gara a chi è più veloce, chi solleva 150 chili anziché 145. Non c’è partita, non c’è gara, davvero non capisco chi la intenda altrimenti. Ma che siamo al Rischiatutto?
Dunque, con chi si compiace?
Paolo, Sorrentino, e Mario, Martone: sono due amici, c’è stima e sentimento.