il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2022
Il boomerang sanzioni
La prima offensiva della Guardia di Finanza ha portato al congelamento di beni in mano a nove oligarchi russi – ville, yacht e macchine di lusso – che stime molto prudenti hanno valutato circa un miliardo di euro. Ma i problemi sono solo cominciati. La gestione di questi beni, per l’Italia, si potrebbe rivelare una grana ben più complicata delle operazioni di freezing, basate sulle sanzioni emesse dall’Unione europea dopo l’invasione dell’Ucraina. I costi vivi di alcuni tra questi asset si stanno rivelando infatti enormi, l’amministrazione quotidiana complicatissima. E i ricorsi legali, un domani, potrebbero ritorcersi contro le autorità che hanno bloccato quei beni.
Il vero interrogativo riguarda cosa succederà quando dovessero decadere le sanzioni: chi pagherà il costo delle spese? Per adesso, anticipa l’Agenzia del Demanio. La norma attribuisce ai singoli Stati un diritto di rivalsa, senza spiegare però esattamente come farlo valere. Le autorità italiane ritengono di avere un asso nella manica: il cosiddetto diritto di ritenzione. Detto in parole povere, il bene sarebbe riconsegnato al proprietario solo dopo il saldo del conto. Un pagamento che sarebbe nell’interesse dei titolari, visto il valore astronomico delle ville e delle barche congelate. La soluzione, tuttavia, potrebbe non essere così semplice. Questa via, pacificamente percorsa in tema di sequestri, potrebbe non avere un ombrello giuridico in questo caso, in cui si parla appunto di “congelamento”. Dunque, suggerisce qualche avvocato, per far valere il diritto di ritenzione dello Stato e obbligare gli oligarchi a pagare le spese di manutenzione, potrebbe essere necessario uno “strumento giuridico”. In altre parole un ricorso a un giudice civile che convalidi un sequestro a fini cautelativi. La verità, spiegano diverse fonti accreditate, è che il terreno giuridico su cui si muovono questi provvedimenti è inesplorato. E gli esiti tutt’altro che certi.
Mercoledì scorso, nel corso di una riservatissima riunione romana del Comitato di sicurezza finanziaria, l’organo del ministero dell’Economia e delle Finanze che ha in carico la questione sanzioni, è emerso infatti che la grana principale dello Stato italiano in questo momento ha un nome: Sailing Yacht A. È il veliero riconducibile al magnate Andrey Melnichenko, bloccato nel porto di Trieste. Una gigantesca barca a vela unica al mondo da 530 milioni di euro, che custodisce al proprio interno attrezzature che valgono altrettanto. In altre parole, il tutto varrebbe più di 1 miliardo. Secondo una prima stima del Comitato di sicurezza finanziaria la Sailing Yacht A. costituisce il 90% dei costi dei nove beni sequestrati finora, in carico allo Stato. Quando è stata congelata era in riparazione. Ora si trova senza un albero, fuori dall’acqua, e per effetto del provvedimento ha perso la bandiera e la copertura assicurativa. Tenerla ferma costerebbe qualcosa come 40mila euro al giorno, cioè 1,2 milioni di euro al mese. Durante la riunione nella capitale l’organo del Mef ha sbloccato gli stipendi dell’equipaggio, in ritardo di tre settimane: 200 mila euro. Ma ha rinviato la questione più delicata: l’onerosissima gatta da pelare della polizza assicurativa, senza la quale lo yacht non si può muovere. E non poter spostare la barca provoca conseguenze a catena: lo yacht è ormeggiato in un bacino di carenaggio del colosso pubblico Fincantieri, a Trieste, che deve essere liberato per far spazio alla riparazione di una nave da crociera. Ritardare queste operazioni – come ha rivelato Il Piccolo a fine marzo, ripreso poi da altri quotidiani nazionali – significa esporre Fincantieri a una penale da 600 mila euro.
La difficoltà della gestione è dimostrata dal fatto che il Demanio, temendo il deterioramento del bene preso in carico, ha nominato come amministratore il rappresentante francese della società armatoriale che, secondo l’Unione europea, farebbe da schermo all’oligarca Melnichenko. La proprietà della barca è infatti della Valla Yachtes Limited, trust con sede alle isole Bermuda, società rappresentata dagli avvocati Alessandro Vaccaro, Nicola Scodnik e Francesca Pastore. Fincantieri, da giorni, chiede che l’imbarcazione lasci il bacino San Marco, temendo danni economici importanti. Sulla vicenda si tengono tavoli quasi quotidiani in Prefettura a Trieste. Riunioni in cui è sempre più chiaro come le sanzioni contro gli oligarchi russi siano destinate a diventare una partita molto difficile da gestire.