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 2022  aprile 09 Sabato calendario

Gli scandolosi anni Venti a Parigi


da Parigi
«Pionnières», s’intitola questa bella mostra al Musée du Luxembourg (fino al 10 luglio, a cura di Camille Morineau e Lucia Pesapane, catalogo LM) che ha come sottotitolo «Artistes dans la Paris des années folles» e come obiettivo, più o meno velato, di tracciare un raffronto e insieme individuare un filo rosso fra gli anni Venti del Novecento, appunto gli «anni folli» per eccellenza, e gli anni Venti che stiamo vivendo adesso, anch’essi folli per molti versi, anche se di una pazzia di tipo diverso.
Fra le similitudini possibili, vale la pena segnalare che, allora come oggi, quei due decenni hanno dietro di loro una pandemia, la «spagnola» nel primo caso, il «coronavirus» nel secondo. Se si vuole, si può anche avanzare un paragone, per quanto forzato, fra ciò che la fine degli Imperi centrali nonché dell’Impero russo significò in termini di profughi ed esiliati politici e ciò che l’esodo ancora ieri mediorientale e nordafricano e già oggi ucraino sta significando per il Vecchio Continente. La forzatura sta anche nel fatto che un secolo fa la capitale per eccellenza della «follia» fu Parigi, seguita a una certa distanza da Berlino, mentre oggi non c’è una metropoli europea in grado di ricalcarne e/o riproporne la vitalità artistica, culturale, sociale. Al contrario, ciò che sembra ripercuotersi sull’Europa è il vento nordamericano della cancel culture, ovvero l’esatto contrario di quanto cent’anni orsono intellettuali e scrittori anglosassoni cercavano, fuggendo dal puritanesimo e dalla repressione dei costumi imperanti nei loro Paesi, e vogliosi di una libertà di pensare e di agire che Parigi andava elevando alla massima potenza.
Un altro elemento che vale la pena considerare in questo gioco di specchi un po’ falsato, è che un secolo fa le donne furono realmente «pioniere», ovvero all’avanguardia. Lo furono perché da un lato la Grande guerra aveva di fatto rivoluzionato il mercato del lavoro, permettendo loro di accedere anche a quelli che fino ad allora erano stati considerati campi esclusivamente maschili, dai trasporti alle fabbriche alla meccanicizzazione dell’agricoltura, addirittura all’aviazione. La carneficina che contrassegnò la cosiddetta «guerra delle trincee» sfoltì inoltre di non poco la popolazione maschile, accelerando una rivoluzione nei costumi, nel concetto stesso di famiglia, persino nell’istituzione matrimoniale.
Per dirla in breve, la Prima guerra mondiale liberò un’energia femminile che, per quanto tenuta a freno dall’arretratezza del ceto politico, oppure proprio perché da essa tenuta a freno (no al diritto di voto, no a una parità dei diritti, sempre e comunque subordinazione del «sesso debole» rispetto al «sesso forte»), finì con l’invadere i settori più specificatamente artistici, dalla pittura alla musica alla letteratura, senza per questo trascurare lo sport e, naturalmente, la moda. Qualche nome? Da Joséphine Baker a Colette, da Chanel a Sonya Delaunay a Suzanne Lenglen, tutte presenti lungo le sale dell’esposizione con le loro creazioni, i loro abiti, le loro interpretazioni, i loro trofei. La Baker, per fare soltanto un esempio, creò intorno al suo nome un piccolo impero che andava dai prodotti di bellezza ai ristoranti, all’attrezzatura sportiva...
È interessante notare come molte di quelle che oggi sembrano battaglie d’avanguardia, come i concetti di identità e di genere, fossero già presenti un secolo fa. Nel suo Svegliarsi negli anni Venti (Mondadori), Paolo Di Paolo tocca giustamente questo tema, qui noi ci accontenteremo di osservare che un film di successo, The Danish Girl, presentato a Venezia pochi anni fa, non è altro che la storia romanzata di Lili Elbe, al secolo Einar Wegener, che nella Parigi degli anni Venti fu il modello femminile di sua moglie, la pittrice danese Gerda Wegener. La mostra espone una mezza dozzina di dipinti di quest’ultima in cui il soggetto è il marito ritratto al femminile: «Lili» era il nome che ambedue avevano dato a questa terza persona...
Terzo sesso, nuove Eve, garçonnes, vagabondes... Sotto questo aspetto gli anni Venti del Novecento sono altrettanto, come dire, scandalosi, degli anni Venti attuali, però lo sono un secolo prima, e questo vorrà pure dire qualcosa. Romaine Brooks, americana, pittrice, lesbica, fa parte della cerchia di Natalie Clifford Barney, anche lei americana, anche lei lesbica, «l’amazzone» è il suo soprannome, e però socialite, ovvero ben dentro la Parigi che conta. Come lo sono del resto Gertrude Stein e la sua compagna Alice Toklas che pontificano sull’arte d’avanguardia dalla loro casa di rue Fleurus, o Adrienne Monnier e Sylvia Beach che dalle loro librerie intorno alla place de l’Odéon tengono a battesimo la nuova letteratura, da Joyce a Hemingway... Lesbica è anche Suzy Polidor, cantante di talento, bisessuale è Tamara de Lempicka che riassume in sé tutto il déco di quell’epoca...
Un posto a parte fra le «pioniere», l’ha Suzanne Valadon, sia per l’unicità della sua biografia, sia per il tipo di pittura da lei espresso. Figlia di una lavandaia, cucitrice a cottimo, poi acrobata in un circo, in seguito modella per Renoir come per Toulouse-Lautrec, Suzanne è anche la madre di Maurice Utrillo, figlio peraltro di padre sconosciuto... Di quegli anni Venti al femminile sarà la più realista, nessuna concessione al glamour, alla moda, alla seduzione. Le sue modelle sono robuste quanto esauste, lavoratrici alle quali la vita non ha regalato nulla.
In quella Parigi che detta le mode e battezza le avanguardie, le «pioniere» arrivano da tutto il mondo. Pan Yuliang proviene dalla Cina e giusto un secolo dopo il più celebre dei registi cinesi, Zhang Yimou, gli ha reso omaggio con un film che ne ripercorre la vite e le opere. Tarsila do Amaral viene dal Brasile e nella cerimonia di chiusura delle Olimpiadi del 2016 tutto lo stadio Maracanã si è trasformato in un tableau vivant, con dei figuranti chiamati a rappresentare, un persona a braccia aperte ornata di vegetazione tropicale, ciò che lei all’epoca aveva messo su tela... Sono solo due piccoli esempi per ricordarci come quelle «pioniere» riconosciute e apprezzate come tali, non fossero dei fuochi fatui ma, al contrario, abbiano retto al tempo, continuando in seguito a creare a essere presenti.
Insomma, come nota una delle curatrici della mostra, Camille Morineau, «negli anni Venti del Novecento il lavoro di pittrici, scultrici, creatrici di moda, fotografe, decoratrici è molto più presente di quanto non si pensi. L’impressione è che le artiste donne fossero più visibili allora che non oggi». I nostri folli anni Venti al femminile dovrebbero chiedersi il perché.