la Repubblica, 9 aprile 2022
Roma antica parlava a ritmo di rap
Maurizio Bettini nel rimarchevole volume Roma, città della parola. Oralità Memoria Diritto Religione Poesia (Einaudi) affronta e porta a felice compimento un’impresa apparentemente impossibile: ricostruire la storia del mondo antico romano non solo leggendo le fonti, le iscrizioni, i documenti, i testi normativi, ma studiando la parola parlata.
Così facendo cambia completamente la prospettiva esegetica anche di fenomeni e personaggi noti e ben scrutinati, solo inducendoci a vedere le cose da un angolo di visuale ribaltato, forse ovvio ed evidente ma a condizione di accorgersene. E i risultati raccolti in questo libro ci rivelano cose determinanti per la nostra coscienza culturale.
Ci fa riflettere su un dato elementare: da quando esistono le fotografie, i filmati, i video e adesso gli strumenti elettronici noi conosciamo e giudichiamo i fatti storici guardando, ascoltando, leggendo, scrivendo e soprattutto parlando, tanto che, nel bene o nel male, è il talk show lo spettacolo e insieme l’esperienza culturale e informativa per antonomasia, che diverte, esalta, indigna, disgusta, inganna, rivela.
Ma la maggior parte della storia dell’umanità non è attingibile in questo modo perché è soltanto letta e scritta. L’udito è sì fortemente attivato, ma per ascoltare solo quanto viene riferito da testi scritti o rintracciato anche in testimonianze visive.
Allora di quelle parole che fecero la storia, la poesia e il diritto si possono cercare le tracce? Muterebbe, allora, radicalmente ciò che si conosce attraverso epistolari, manoscritti, pubblicazioni, carte d’archivio.
Anzi molte delle nostre cognizioni e emozioni, spiega Bettini, dipendono prioritariamente dal parlato dei nostri predecessori.
Nell’antica Roma questo tema storiografico rifulge come meglio non si potrebbe e su questo possente paradosso del “mare della fantasia fonica” il libro dilaga per capire come funzionasse l’attività poetica e giuridica nei tempi arcaici. Il riferimento è alle occasioni cruciali altamente formalizzate in testi poetici, procedure legali, strutture cerimoniali rigidamente codificate e quindi “dette”, dove possiamo essere certi di trovare vivide tracce del parlato.
Intuizione formidabile e semplice al contempo, che porta a dedurre le possibili modalità di fonazione, di pronuncia, di inflessioni particolari inevitabilmente cristallizzate, per esigenza prioritaria di consacrazione e relativa trasmissione, in tipologie fisse di linguaggio: la cerimonia religiosa formalizzata, la declamazione poetica reiterata di generazione in generazione, la sentenza emessa per coprire ogni possibile casistica con termini univoci.
Implicano, deduce Bettini, formulari che i documenti scritti talora riportano permettendoci di evocare anche la concreta fonazione.
Così, entro certi limiti, ascoltiamo la storia.
Il rituale in sé è depositario di una parlata arcaica conservata con intransigente rispetto nel susseguirsi delle generazioni. Una caratteristica che di certo non è solo romana ma che trova nell’immensa complessità dei testi romani un terreno di studio incomparabile.
Bettini elabora una sorta di chiave di lettura universale per compiere perlustrazioni interessanti a partire da un polo dialettico sul quale si appunta la sua critica: il libro La città antica di Fustel de Coulange, pubblicato con immensa risonanza e successive roventi polemiche a Parigi nel 1864. L’autore tentava di fornire una plausibile ricostruzione del mondo classico con una disamina sulla religione dei Romani che Bettini confuta arrivando a conclusioni pressoché opposte.
Certo tra il 1864 e il 2022 c’è il trionfo e il ridimensionamento del marxismo, della linguistica e dell’antropologia strutturale, della complessa evoluzione della sociologia, della psicoanalisi. L’argomento di Bettini, figlio dotto e consapevole di questa immensa mutazione epocale, è decisivo: Fustel de Coulange vede la religione romana come un’entità quasi astratta dalla quale gli esseri umani traggono le regole e i comportamenti su cui è costruita la civiltà e la convivenza. Ma Bettini dimostra come la religione romana sia prodotto integralmente umano, deducibile proprio da quel parlato che si recupera in una sorta di scavo archeologico da cui certo emergono frammenti come i cocci delle anfore che non vedremo più integre, ma che pure ci ragguagliano bene sulle forme, i materiali, gli usi e i significati.
Bettini attinge in parte dagli studi di Ferdinand de Saussure, cui si ricollega in una nuova e originale prospettiva inerente all’analisi dell’andamento e delle modalità del discorso antico. Alla base della poesia arcaica romana c’è l’allitterazione cioè l’accentuazione del carattere fonico del linguaggio da cui dipende il senso del discorso e non viceversa.
Una tendenza perennemente ricorrente in tutte le tradizioni e civiltà umane, impropriamente definite arcaiche. E che oggi, osserva Bettini, è esemplificata dall’apoteosi universale del rap.
Uno stile musicale ancora adesso percepito come ultramoderno, eversivo, aggressivo, ma basato a ben vedere sugli stessi principi di allitterazione reiterata e martellante che il sommo storico Rudolf Westphal alla fine dell’Ottocento rintracciava nella metrica della tradizione arcaica dei popoli semitici e indogermanici, come li chiamava lui, in sintonia peraltro col grande Jacob Grimm.
La raffica fonica del rap ricorda a Bettini l’utilizzo di parole chiave nella cultura poetica e giuridico/ amministrativa della fase arcaica romana come Ius Fas Mos Lex alla cui analisi è dedicata la parte più strettamente filologica ma non meno avvincente del libro.
Bettini ricorda come ancora un gigante come Cicerone, cultore del più maestoso classicismo, avesse ben chiara la fascinazione e la potenza di quella fase arcaica in cui la valanga delle comparazioni foniche precede e in qualche modo plasma il significato della frase. Il trionfo della metrica greca provvederà poi a relegare questo mondo in una nicchia, satura però di quell’oralità che il classicismo tese ad accantonare e la storiografia ufficiale a dimenticare.