la Repubblica, 9 aprile 2022
La parabola dei russi da liberatori a tiranni
Non sembra una buona idea aspettarsi che la fine dell’attacco russo in Ucraina dipenda da una congiura di palazzo o da una presa di coscienza popolare. È successo solo in Italia, nel 1943, ma con gli Alleati in Sicilia e la monarchia che non vedeva l’ora di disfarsi di un inquilino moroso. Tutti gli altri esempi depongono contro questa eventualità: in Germania e in Giappone, a partire da quell’anno, il consenso si è rinsaldato e il patriottismo si è rafforzato, e i Paesi che hanno cercato di sfilarsi dall’alleanza erano quelli che, come la Bulgaria e l’Ungheria, ci si erano trovati a forza. Non è nemmeno escluso che una delle ragioni che hanno indotto Putin a passare dalle minacce, internazionalmente redditizie, all’attacco, reputazionalmente rovinoso, fosse proprio quello di rafforzare il fronte interno.
A perdere la faccia (preoccupazione che appare frivola di fronte a morti e a distruzioni ma che risponde alle ragioni di prestigio alla base di questa e di altre guerre) non è Putin di fronte all’opinione pubblica russa, ma la Russia, la sua storia e il suo esercito di fronte all’opinione pubblica occidentale. Perché, anche qui, ciò che la Russia può significare per la Cina, l’India, il Pakistan o il Giappone è qualcosa di molto diverso da ciò che ha significato per l’Europa. Per la Cina è un vicino grande e malandato, per l’India e il Pakistan è la protagonista di un “gran gioco” per il possesso dell’Afghanistan iniziato nell’Ottocento e non ancora finito, per il Giappone è la sconfitta di Tsushima e la conquistatrice della Manciuria nel 1945.
Niente che abbia a che fare con la liberazione. Invece nella coscienza europea i russi, proprio come gli americani, sono stati i liberatori, coloro che in un giorno che è divenuto il Giorno della Memoria sono entrati ad Auschwitz, e che il 1° maggio 1945 hanno fatto sventolare la bandiera rossa sul Reichstag con lo stesso dispiegamento di accorgimenti fotografici che ha accompagnato l’iconica bandiera americana alzata dai marines sul monte Suribachi a Iwo Jima. Poco importa che, alla liberazione, abbiano fatto seguire una occupazione di mezza Europa, calando un sipario di ferro (perché tradurre così male “curtain”?) da Stettino a Trieste, come aveva profetizzato Goebbels nel 1945 e come constatò Churchill nel 1946; e che per farlo Stalin abbia permesso che i tedeschi soffocassero indisturbati la rivolta di Varsavia nel 1944, con le truppe sovietiche schierate in un sobborgo dall’altra parte della Vistola.
Resta la forza dei simboli. «In cinque mesi o, per meglio dire, in tre, abbiamo visto sparire mezzo milione di uomini, 1500 pezzi d’artiglieria, 6000 ufficiali, tutti i bagagli, tutti gli equipaggi, tesori immensi, tutto ciò che i francesi portavano via e tutto ciò che avevano portato con sé. Mi è stato citato un reggimento di cosacchi di circa 500 uomini, nel quale ogni soldato ha avuto, per la sua parte, 84 ducati. Si sono vendute delle carrozze per 50 rubli e orologi Breguet per 25. Ma le sofferenze degli uomini hanno superato ogni immaginazione e non lasciano spazio che alla pietà, anche nei riguardi del più feroce nemico. Gli uomini più irreligiosi sono colpiti da questa spaventosa catastrofe, seguita a una guerra che si è compiaciuta di fare dei sacrifici più rivoltanti un capitolo della sua tattica; e quanto a me, credo che mai dio abbia detto agli uomini con voce più alta e più chiara: SONO IO». Così scriveva Joseph de Maistre nel 1812, commentando la disfatta della Grande Armata di Napoleone in Russia. A centotrent’anni di distanza, e con un nemico ben più insalvabile, l’Armata Rossa ripeteva l’epopea di Kutuzov, sebbene a cantarne le gesta non ci fosse il Tolstoj di Guerra e Pace ma le controverse cronache di Ilya Erenburg. Accumulava così un capitale che ha resistito alle rivolte in Germania, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, e persino al crollo dell’Unione Sovietica, che anzi aveva dissociato l’azione di Žukov da quella di Stalin, la liberazione dalla dominazione. Quel capitale che fece sì che Fischia il vento, la canzone partigiana creata nel 1943, fosse composta sull’aria di Katjuša. Anzi, dopo la caduta dell’Unione Sovietica il mito era risorto in una forma di indulgente purificazione. In un mondo globalizzato disposto ormai a rimpiangere anche le Trabant e la vita grama della DDR in film come Goodbye Lenin!, una certa nostalgia sovietica tornava a essere possibile.
Ma, come dice Cartesio, il marito devoto che piange alla sepoltura della moglie non sarebbe troppo contento se costei resuscitasse: e sicuramente gli ultimi vent’anni, con oligarchi e polonio, con Putin a torso nudo a cavalcioni di un orso (così in calendari molto popolari in Russia), e con improbabili teorici dell’Eurasia, non hanno incrementato il patrimonio simbolico. In Occidente la Russia di Putin ha ancora trovato sostenitori, ma non erano più quelli di una volta; l’attacco all’Ucraina ha fatto il resto. Marce cosacche e cori dell’armata rossa non dicono più nulla di buono, e questa guerra, che si può giustificare solo prendendo sul serio le teorie di qualche panslavista redivivo, ha dato il colpo di grazia. Se la Guerra del Golfo, secondo l’esageratissima diagnosi di Jean Baudrillard, aveva ucciso la realtà, direi che questa, in modo più circoscritto ed efficace, ha ucciso la reputazione dell’Armata Rossa nell’immaginario europeo.
Nel 1945 Un soldato dell’Armata Rossa sventola la bandiera sul Reichstag